Il dolore è una componente importantissima dell’esistenza, come la gioia del resto, che però non ci permettiamo di ascoltare profondamente come il dolore. Parlare delle proprie gioie non è proprio un fatto culturale come parlare delle proprie pene. Vale la pena interrogarsi sul pianto pubblico dilagante, in un momento storico che dimostra ampiamente come esso si trasformi spesso in gossip che produce a sua volta una sorta di voyeurismo sociale. Un dolore che diventa facilmente pettegolezzo, complici televisione e media in concomitanza coi più disparati social network, questi ultimi immediati canali di una comunicazione fai da te che trasforma la sfera privata dei sentimenti in una dimensione affettiva da esporre e condividere apertamente.
«È terapeutico permettere al dolore di uscire da noi attraverso tutte le tecniche che ci permettono di verbalizzarlo senza rinchiuderlo nella cassaforte delle emozioni: parlando, scrivendo, dipingendo, disegnando», afferma la psicologa e psicoterapeuta Gabriella Bianchi Micheli che si occupa nello specifico di persone che attraversano percorsi di malattia cronica aiutandole a tematizzare il loro cammino. «Noi terapeuti diciamo ai pazienti di provare ad esprimere il loro dolore scrivendo, se non riescono a farlo con le parole: ciò porta a un’introspezione e a un’elaborazione del proprio vissuto verso una crescita personale; poco importa se altri lo leggano o lo ascoltino». Ma l’era social e la spettacolarizzazione mediatica del dolore sono oggi favorite da una comunicazione veloce, breve e superficiale come la nostra società: «Vincente, ma poco utile: chi entra in questi blog (pensiamo a diverse donne giovani con tumori, e via dicendo, per fare un esempio) rischia di non sapere con chi sta parlando, l’ansia aumenta a dismisura perché ci si confronta con una verità personale priva di evidenze scientifiche. Chi si sta confrontando a sua volta con un percorso di malattia, dovrebbe a questo punto farsi aiutare dal team dei medici curanti per gestire la situazione: internet non ti conosce, il medico sì e può fare da filtro a ogni informazione scaturita da un’esperienza personale di altri che non sempre corrisponde alla propria realtà».
Così la nostra interlocutrice dà una spiegazione dei bisogni di chi si mette in gioco attraverso i social: «Essi usano un modo più immediato e semplice per comunicare, mentre mettersi alla scrivania e scrivere ci pone dinanzi a una valanga di emozioni che a quel punto esigono un’elaborazione introspettiva. Sui social, invece, esprimo quella cosa ma non ricevo aiuto per approfondire le emozioni e le relative sfaccettature che essa comporta».
Le riflessioni della psicologa ci permettono di capire che l’immediatezza, la messa in piazza e la leggerezza che queste scelte comportano ci pongono nell’ambito di una società che vive correndo in superficie, in un tempo veloce che non comprende riflessioni e introspezioni, e che non si ferma perché allora si creerebbe un tempo verticale fatto di elaborazione e crescita che non si è disposti a vivere. Lo dimostrano i format mediatici che favoriscono questa modalità di comunicazione delle proprie vicissitudini: «Dal ’96, quando sono iniziati i programmi tipo Grande Fratello, Truman Show e via dicendo, assistiamo all’uso di mettere in piazza emozioni superficiali, non elaborate, da spettacolo. Mi chiedo quanto serva alla persona stessa e se non corra il rischio che poi, spenti i riflettori, quella stessa persona rimanga sola a gestire la sua crisi. Un meccanismo con un fondo di perversione perché non tutti si rendono conto di star mettendo in gioco la spettacolarizzazione del proprio agire emotivo, e questo non sappiamo dove li porterà».
Quando la lacrima diventa comunicazione, il dolore che viene messo in una «piazza» genera una sorta di voyeurismo finalizzato a mantenere un equilibrio emotivo apparente, una via di mezzo, un modo per edulcorare il proprio dolore rendendolo più sopportabile: «Non so se vivere “attraverso” il vissuto di altri permetta di anestetizzare la propria storia, non penso possa davvero alleviare il proprio dolore, ma si potrebbe avere l’illusione di aver trovato un percorso da seguire. Se le persone si nutrono di social e del voyeurismo del dolore altrui, dovrebbero disporre di un piccolo filtro che li faccia riflettere: se penso solo a questo, significa che sto fuggendo da una parte di me stesso che grida ascoltami».
Secondo la psicologa, si rischia la dipendenza dai social: «Vediamo persone che non riescono a staccarsi da ciò e varrebbe la pena chiedersi perché ne abbiano tutto questo bisogno. Come tutte le dipendenze, rientra nel discorso “mi affido a qualcosa o a un voyeurismo sbirciando cosa scrivono gli altri per non occuparmi della mia sofferenza”. Così non si affronta un dolore interno personale che prima o poi si ripresenterà e chiederà il conto». Ci chiediamo se i media non amplifichino quell’anestesia della percezione del dolore figlia della moderna società, ma la nostra interlocutrice ci rassicura: «Non credo che i media abbiano grandi responsabilità: si è sempre faticato a vivere le emozioni nel reale, ma non è tardi per insegnare all’essere umano a parlare di emozioni: mostrando le nostre ai bambini che non dobbiamo relegare davanti ai giochini o agli iPad, ma ai quali non bisogna nascondere le nostre emozioni, chiedendo loro di mostrarci le loro senza il triste filtro dei media. Educhiamoci ed educhiamoli a leggere le emozioni altrui e a esprimere le loro, proprio come nella società di un tempo in cui si giocava insieme, e i nonni vivevano trasmettendo la loro esperienza dove un bambino che piange, che si arrabbia non era un alieno». Sarebbe il ritorno a una dimensione di vita più reale, dove si possa parlare e ascoltare soprattutto i giovani: «Ascoltare è importante: implica stare zitti, accogliere, non insegnare, anche se le cose non ci piacciono».
Si tratta di riuscire a scalfire la crescente incapacità di stare accanto al dolore reale, accanto alle persone più deboli: «È facile accorgerci che la gente attorno a noi diminuisce quando siamo in una condizione di evento traumatico della vita, un lutto, una separazione: c’è chi non è capace di stare accanto al dolore altrui, ma quelli che ce la fanno condividono, crescono e imparano. E ci sono anche giornalisti che riescono ad accogliere e ascoltare testimonianze, scrivendole e filmandole: se un giornalista si spaventa della sofferenza può solo restare nella spettacolarizzazione, mentre quando sa ascoltare senza mediatizzare superficialmente, allora diventa educativo anche per la società». Come diceva un maestro zen: «Ogni giorno bisogna innaffiare i semi della gioia, invece noi innaffiamo quelli del dolore». Cambiare si può.