«La disforia di genere ti sdoppia: La mia mente diceva: “io sono una donna” e lo specchio diceva un’altra cosa: “no, tu sei un uomo”. E io mi sentivo imprigionata in un corpo maschile. È brutto, perché ti rendi conto che da quella prigione non puoi scappare».
Parlare di questo argomento non è facile. Ma Simona, 51 anni, luganese, funzionaria del Dipartimento del Territorio – «sono l’unica funzionaria pubblica cantonale della mia professione» (sorride) – riduce un tema ancora tabù a un granello di sabbia e offre la sua testimonia. La sua storia. Con coraggio. Parla dei suoi figli poco più che ventenni e della relazione con la sua ex moglie – «una relazione durata 36 anni. Mi ero messa in testa di invecchiare con lei. È quello che avrei desiderato ardentemente, purtroppo la malattia ce l’ha portata via. È per questo che dopo diversi mesi dalla sua morte ho deciso, mi sono detta: “adesso lo faccio”. I miei disagi risalgono a quarant’anni fa, disagi che si sono tramutati in consapevolezza e in sofferenza. Solo nell’ultimo anno la vita mi ha messo nella capacità di compiere il passo: ho preso la decisione il 1. dicembre di un anno fa e ho iniziato la cura ormonale il 28 gennaio di quest’anno».
Quali sono state le reazioni? «Mi sono meravigliata io stessa di come sia andato tutto bene, sia a livello dei contatti personali, ma soprattutto professionali, specie dai miei superiori. Ho voluto che il mio cambiamento fosse divulgato a tutti i miei contatti professionali, che sono centinaia». Come è iniziato il suo percorso di transizione? «Anni fa, quando ero ancora un maschio, sono andata da uno psichiatra e ho svolto diverse sedute per cercare di risolvere il problema – che è una parola grossa – o almeno di capire la situazione. Ma non ho né risolto il problema né capito la situazione e così a un certo punto ho smesso, perché perdevo il mio tempo e le mie energie. Durante i miei quarant’anni trascorsi con la disforia di genere tenevo tutto dentro di me».
Albergava dunque già in lei da anni questo desiderio di diventare Simona? «Sinceramente no. Quando io ero con mia moglie – e volevo quella relazione – non ho mai pensato di fare la transizione. A mia moglie avevo detto che avrei voluto essere una donna, che mi sentivo una donna e lei lo ha accettato, perché era un angelo. Alla società lo tenevo invece segreto».
I suoi figli come hanno accolto la sua scelta? «Con i miei figli ho adottato una tecnica sul lungo periodo. In aprile ci siamo ritrovati a cena e ho detto loro, “stasera voglio farvi un discorso”. In sintesi ho detto loro: la mamma non c’è più e io mi trovo ora nella possibilità di realizzare un sogno nel cassetto. Però sappiate che qualsiasi cosa succeda il mio amore per voi non cambierà e io per voi ci sarò sempre. Ho iniziato con questo. Poi nelle settimane successive li ho regolarmente punzecchiati con questi argomenti. In luglio ho raccontato loro quel che mi stava succedendo e praticamente gli ho confermato quello che loro sapevano già. L’hanno presa bene. Certo, avrebbero preferito che io continuassi a fare il loro papà (sorride). Ora noi ridiamo e scherziamo della mia condizione». La chiamano ancora papà? «Sì. Io li riprendo spesso. Dico loro di chiamarmi Simona o “mamma due”. Devo ancora trovare come identificarmi. Quando usciamo, però, dico loro: “mi raccomando, non chiamatemi papà”».
Come è andata invece con i suoi amici? «Il mio coming out è piuttosto recente. Ci sono alcune persone alle quali l’ho detto che hanno risposto subito benissimo, altre che invece hanno bisogno di un po’ più di tempo». Come sta evolvendo la sua nuova vita sentimentale? «Ormai come neo-donna devo consolidare i miei rapporti sociali e anche un rapporto sentimentale che al momento non ho. Però io cerco un uomo. Sono eterosessuale. Da uomo guardavo le donne e da donna guardo gli uomini. Dovrò comunque trovare la persona giusta».
Ora si sente una persona in pace con se stessa? «Io sono una persona migliore. Ritengo di essere sempre stata una bella persona, però devo ammettere che la mia disforia di genere mi innervosiva, ne risentiva il mio carattere. Non mi esprimevo al meglio. Adesso ho trovato una pace, una serenità perché non sono più in conflitto con il mio corpo. È uscito il meglio di me. Non so più cosa sia la rabbia, faccio le cose meglio, con più pazienza». Eppure, oggi il tema transgender appare ancora piuttosto un tabù. «Penso di sì, però penso anche che siamo nel 2020 e non deve più esserlo. Non bisogna avere paura del giudizio degli altri e sono orgogliosa della società ticinese, moderna e aperta», sorride Simona.
Negli scorsi giorni il Consiglio Nazionale ha approvato il progetto, già accettato dal Consiglio degli Stati, che in futuro permetterà alle persone transgender e intersessuali di cambiare sesso nel registro di stato civile senza passare da un giudice. Le leggi si mettono al passo coi tempi, ma quanto è pronta la società alle differenze? Rivolgiamo la domanda a Chiara Spata, formatrice, counselor psicosociale, che dal 2004 si occupa di questioni di genere e lavora per la promozione e l’educazione dei diritti umani, battendosi per promuovere una società più inclusiva che rispetti il valore delle differenze. Organizza numerosi laboratori, il più recente dei quali in collaborazione con Amnesty International sui temi «migrazioni di genere» e «linguaggi di genere», con l’obiettivo – fra i tanti – di «stimolare pratiche riflessive che mettano in discussione i propri stereotipi e modelli, in modo da costruire un ricco bagaglio di consapevolezza e buone pratiche».
«Se entriamo nello specifico nelle questioni di genere – evidenzia Chiara Spata – è importante distinguere i due concetti di sesso e di genere, che fino a non molto tempo fa sono stati sovrapposti. Il primo e fondamentale passaggio, che io in prima istanza comunico nel momento in cui facciamo questi laboratori, è quello della condivisione della “cassetta degli attrezzi”. Per costruire un discorso, dobbiamo evidentemente avere un codice comune, un lessico, una terminologia comuni, perché per entrare in questi temi ed educarci realmente alle differenze è necessario compiere un salto di paradigma. Per fare questo è anzitutto importante suddividere le due questioni: il sesso è quell’insieme di caratteristiche fisiologiche con le quali nasciamo, cioè l’aspetto biologico. Il genere, invece, corrisponde all’organizzazione sociale della differenza sessuale. Questo significa che i caratteri dell’essere uomo o donna non sono biologici, non sono fisiologici, non sono naturali ma vengono costruiti socialmente e culturalmente. Noi non nasciamo con il comportamento da donna o da uomo, quello lo impariamo».
Solo negli ultimi anni si inizia a parlare di queste tematiche un po’ più liberamente e con una maggiore cognizione di causa. È d’accordo? «Sì, se ne parla finalmente anche al di fuori dai contesti di militanza. Le questioni di genere sono entrate nelle accademie oltre venti anni fa. Ricordo il primo libro letto sull’argomento della scrittrice Judith Butler, Corpi che contano. Un altro aspetto importante è che l’identità e il ruolo di genere sono due assunti diversi: l’identità è la percezione di sé; il ruolo ha invece a che fare con l’aspettativa, quello che ci viene richiesto dal nostro contesto sociale. Inevitabilmente questi due aspetti hanno delle sfumature, non sono netti così come le nostre culture intendono in qualche modo farli passare, per la necessità di mantenere un sistema socio-culturale ed economico. Sin da quando nasciamo, ci viene imposta la distinzione – colore rosa per bambina, blu per bambino – che sono delle convenzioni. Entriamo così in un sistema che ci sentiamo di dover rispettare. Nel momento in cui l’interiorità di una persona ha molte sfumature, e tra il bianco e il nero contempla un ventaglio di moltissimi colori, ecco che il nostro sistema sociale culturale ed economico etero-normativo chiude quel ventaglio di colori che rappresentano la multiforme varietà dell’identità e affettività umane, limitandola a un bianco e nero».
Chi sono dunque i transgender? «Il transgenderismo ha a che fare con l’attraversamento dei confini di genere. Sottolineo, di genere. È un passaggio evolutivo, quello di passare dalla parola transessuale alla parola transgender. Il concetto di genere è altro dal concetto di sesso. È molto importante capire che transgender vuol dire attraversare i confini dei generi, rompendo gli schemi eterosessuali che ci impongono di aderire a ruoli e aspettative imposti dal contesto culturale – che è innegabilmente un contesto patriarcale – e che prescrive delle ricette, delle regole sulle nostre identità e sui nostri corpi. Accanto al neologismo transgender, per eliminare i rapporti di forza nella nominazione, è stato integrato quello di cisgender, il quale indica un individuo il cui senso di identità personale corrisponde al sesso e al genere attribuito alla nascita».
I suoi laboratori sull’educare alle differenze trattano anche il tema del pregiudizio, che a ben guardare alberga in tutti noi. «In me compresa. Abbiamo dei pregiudizi per forza, perché abitiamo in gruppo, siamo degli animali sociali: ogni gruppo crea delle credenze condivise, che al loro interno contemplano degli stereotipi. A volte noi ragioniamo – e purtroppo più gravemente agiamo – sostenuti da stereotipi che generano pregiudizi. Si parla troppo spesso di ciò che si ignora. Quando non si conosce, quel che si scatena è la paura. Se non ci educhiamo alle differenze commettiamo atti di violenza senza saperlo. E questo non possiamo permettercelo».