Quando Gina Rippon, neuroscienziata cognitiva, ha iniziato a studiare il cervello di donne e uomini, credeva che avrebbe trovato delle differenze. Dopo una serie di verifiche, cercando di scoprire quali aree cerebrali caratterizzassero un sesso rispetto all’altro, la professoressa emerita dell’Aston University di Birmingham, nel Regno Unito, si è però accorta che stava andando nella direzione sbagliata. Impiegando strumenti tecnologici e procedure sperimentali (in inglese neuroimaging) – come la risonanza magnetica – per la visualizzazione del cervello in vivo, non riusciva a trovare differenze tra teste maschili e femminili. Ha dovuto quindi constatare di essere partita da un assunto fuorviante, che adesso definisce non solo «il risultato di pregiudizi», ma, in modo più tranchant, usando un neologismo, «neurospazzatura». Un altro termine che utilizza è «neurosessismo», ricordando che a coniarlo è stata la scienziata australiana Cordelia Fine.
Lo stereotipo nel quale è incappata Gina Rippon non è un’eccezione, anzi, continua ad alimentare un vero e proprio filone editoriale, nel quale spiccano titoli bestseller «che sostengono, addirittura, in modo paradossale, che donne e uomini vengano da pianeti diversi». Appena esce qualche ricerca che cavalca il preconcetto, viene rilanciata dai media con l’uso dei colori rosa e azzurro nelle illustrazioni. Un’attitudine che poggia su una tradizione, lunga secoli, di stampo «essenzialista», che cioè motiva i comportamenti umani attingendo ai dati biologici. Per fare qualche esempio: nell’Ottocento il medico e antropologo Cesare Lombroso e il sociologo Guglielmo Ferrero scrivevano che il «cranio femminile ha somiglianza con l’infantile e il cervello della donna pesa meno di quello dell’uomo». Gli studi più recenti confermano che le donne hanno un cervello, in media, più piccolo del dieci per cento di quello maschile, semplicemente perché hanno una corporatura, in genere, meno massiccia; è una questione di scala. Senza contare, che se si dovesse misurare l’intelligenza in base alla dimensione, cosa si dovrebbe pensare di animali come le balene e gli elefanti, con i loro cervelli enormi? Un altro fautore dell’inferiorità femminile era il filosofo August Comte, secondo il quale il destino delle donne era stare tra le mura domestiche dedicandosi a tempo pieno alla maternità, assecondando così la «loro vera natura».
«Qualsiasi cosa renda diversi i corpi a livello sessuale, dall’apparato riproduttivo agli ormoni, non incide sui cervelli e quindi sulle potenzialità di pensiero» spiega Gina Rippon nelle numerose conferenze disponibili online e nel suo ultimo libro, The Gendered Brain (The Bodley Head Ltd), che ha ottenuto un grande seguito, con recensioni entusiaste e critiche feroci negli ambienti più conservatori. Nei talks su Internet risponde con ironia agli attacchi dei suoi detrattori, che la definiscono – per citare uno degli appellativi più gentili – una «vecchia bisbetica scorbutica», e precisa che i pregiudizi sulle differenze cerebrali tra uomini e donne hanno conseguenze nefaste. Il fatto che si creda che il cervello femminile sia predisposto «naturalmente» all’empatia e alla cura degli altri (figli e famiglia in primis) e non alla politica e al pensiero scientifico, incide sulle vite individuali. A causa di queste credenze, molte donne ricevono stipendi non adeguati, hanno meno possibilità di occupazione, di carriera e in generale di contribuire alla vita pubblica. Situazione diversa da quella del genere maschile, che gode della fama di «innata e meravigliosa abilità cognitiva e strategica».
Da dove ha origine il divario di genere se non viene dal cervello? «Dall’esterno», ribadisce Rippon. «La società, con la scusa di presunte differenze cerebrali, influenza le cose che facciamo, studiamo e pensiamo. Una delle maggiori scoperte dei tempi recenti è che i nostri cervelli continuano a cambiare nel corso dell’esistenza, non soltanto per l’educazione che riceviamo ma per il nostro lavoro, gli hobbies e gli sport. Possiamo osservare, sulle mappe cerebrali, le peculiarità delle persone che abitualmente giocano ai videogame, che fanno gli origami, che suonano il violino. Vedere i segni che la vita lascia nelle nostre menti ci fa anche capire il potere degli stereotipi di genere, fin dall’infanzia. Se potessimo seguire il viaggio dei cervelli di una bambina e di un bambino, monitorandoli fin dal momento della nascita, potremmo verificare nel dettaglio come vengano posizionati da subito su strade diverse. Giocattoli, vestiti, libri, genitori, famiglie, insegnanti, scuole, norme sociali e culturali condizionano potenzialità ed espressioni del pensiero».
L’autrice di The Gendered Brain ha sperimentato di persona gli effetti del divario di genere. Fin da piccola è stata una studentessa brillante. A undici anni ha vinto una borsa di studio per una scuola prestigiosa ma i genitori non hanno voluto che la accettasse. Invece, le hanno fatto frequentare un collegio per ragazze dove non si studiavano materie scientifiche e si riceveva un’educazione per diventare mogli di diplomatici oppure madri. Suo fratello gemello, pur non avendo la sua stessa predisposizione, ma essendo maschio, è stato iscritto a una scuola con tutti i crismi. «Il mio sogno era studiare il cervello. Avrei voluto tanto iscrivermi a medicina, purtroppo ormai fuori dalla mia portata. Dopo quel tipo di percorso scolastico, psicologia era la facoltà più accessibile». Successivamente si è specializzata con un dottorato in Psicologia fisiologica.
Quando non è in laboratorio, dove con le tecniche di imaging cerebrale all’avanguardia studia anche i disturbi dello sviluppo, partecipa a incontri e conferenze «per sfatare il mito pernicioso delle differenze cerebrali». Una missione che a settant’anni porta avanti con passione e fiducia. Perché, come ripete spesso, il Ventunesimo secolo sarà quello della svolta, rispetto a certe credenze.