Le città non sono per tutti. La loro struttura e organizzazione, dal modo in cui sono gestiti i mezzi pubblici alle strade, persino alle case, sono a misura di uomo e non di donna. Offre uno sguardo inedito sui luoghi dove viviamo Leslie Kern, professoressa associata di Geografia e ambiente e direttrice del programma di studi sulle Donne e di genere alla Mount Allison University, in Canada. In italiano è appena uscito il suo ultimo libro sul tema, La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini, edito da Treccani.
Leslie Kern perché, secondo lei, le città non sono pensate per le donne?
Innanzitutto abbiamo un problema di rappresentanza. In molti casi, dalle amministrazioni comunali agli studi di architettura, ingegneria e costruzione, non ci sono donne in posizioni di potere. Le donne non sono nelle stanze dove si prendono le decisioni su come le nostre città devono essere progettate e fatte. Di conseguenza manca il punto di vista femminile, con le necessità e i desideri specifici, su come debbano essere pensati gli spazi che abitiamo. Se consideriamo la situazione da una prospettiva storica, dalla rivoluzione industriale a oggi, ci rendiamo conto che le città sono state concepite perché le donne venissero collocate nella sfera privata e non pubblica.
Quali sono i principali limiti di genere?
Sicuramente la sicurezza è una delle grandi questioni: le città sono ancora luoghi dove le donne subiscono molestie e aggressioni. Dobbiamo stare molto attente a dove andiamo, con chi, a che ora, a che cosa indossiamo, quali spazi sono considerati off limits per noi. I trasporti sono una delle chiavi per la sicurezza, ma in molte città sono ancora organizzati per portare l’uomo breadwinner (che mantiene la famiglia, ndr), dalle aree residenziali al centro per lavoro, nelle ore di punta. Questo non è il modo in cui le donne usano i trasporti dato che tendono a essere meno lineari. Devono, infatti, destreggiarsi tra il lavoro pagato e quello di cura, e usano soprattutto i mezzi pubblici e i percorsi pedonali, per raggiungere le fermate, anche con i passeggini, per portare e prendere i bambini. Eppure, molti dei nostri sistemi di mobilità sono organizzati dando priorità alle auto, alle quali le donne tendono ad avere meno accesso. Un altro limite di genere è la casa: per come è concepita, nasconde tutto il lavoro domestico, di solito ancora quasi sempre femminile, e occulta la violenza nelle relazioni familiari. Non abbiamo ancora abitazioni alternative diffuse, che vadano ad esempio incontro ai bisogni dei nuclei non tradizionali o che siano a buon mercato.
Quali «categorie» sono maggiormente penalizzate?
Le ineguaglianze si intersecano con le condizioni di classe, abilità, etnia, sessualità e così via. Alcune donne, pur sperimentando gli svantaggi della città, riescono comunque a mantenere una condizione di privilegio. Avere accesso a una casa è uno dei principali fattori di divario, soprattutto per chi fa parte della classe operaia, per le madri single e per le migranti. Nelle città i prezzi sono saliti molto negli ultimi anni, rendendo per le donne difficile trovare soluzioni adatte.
Come si può cambiare la situazione?
Occorre innanzitutto un cambio di mentalità e di priorità. Per molto tempo le questioni legate alle donne nelle città sono state viste come faccende di poco conto invece di essere considerate qualcosa che influenza oltre il cinquanta per cento della popolazione. Se rendiamo le città migliori per le donne, le rendiamo adeguate a tutti, incluse le persone con problemi di disabilità e gli anziani. Quindi, invece di pensare alle donne come a un gruppo marginale, dovremmo portarle al centro della riprogettazione. Anche chi ha privilegi beneficerebbe del cambiamento.
Quali sono le possibili soluzioni?
Bisogna che tutte le comunità che abitano le città vengano consultate. Per le questioni sulla sicurezza, occorre parlare con le persone attraverso un processo dal basso. Servono poi linee di intervento specifiche sui trasporti che devono essere adattati alle esigenze delle donne, con percorsi pedonali e ciclabili sicuri, e un’organizzazione comoda dei mezzi pubblici, che dovrebbero essere economici per tutti e gratuiti per i bambini. Abbiamo anche bisogno di un sistema abitativo davvero accessibile in contesti vicini ai servizi necessari, in modo che le donne non debbano impiegare le loro giornate andando da una parte all’altra. I quartieri dove queste dimensioni sono integrate diventano più sicuri, perché non sono soltanto aree dormitorio o di uffici. E i posti pubblici, come ad esempio le toilette, dovrebbero essere più accoglienti, riconoscendo che le persone sono corpi, che c’è il lavoro di cura femminile, dall’allattamento al cambio dei bambini.
Quali sono gli esempi di città pensate per le donne?
Non so se esista davvero una sola città pensata per le donne. Ci sono, però, dei piccoli esempi di città che stanno facendo le cose nel modo giusto. Il quartiere di Aspern a Vienna è in un processo di riprogettazione con un approccio di genere. C’è stata una consultazione con la comunità per capire cosa funziona davvero per le donne. Stanno facendo in modo che ci siano i servizi di prossimità, come scuole, asili nido, alloggi e lavoro. Hanno chiamato le piazze e le strade con nomi di donne. Hanno un design abitativo flessibile, in modo che gli appartamenti possano essere adattati sulla base delle esigenze dei diversi tipi di famiglia. C’è anche Copenaghen, con un’ottima infrastruttura di piste ciclabili, dove tutti usano la bici, che facilita le donne che si destreggiano tra lavoro retribuito e di cura. E un altro ottimo esempio è quello di Parigi, cambiata negli ultimi anni, seguendo il modello dei «15 minuti», secondo il quale ciò di cui abbiamo bisogno nella quotidianità, dal luogo di lavoro, alle scuole, al supermercato, dovrebbe essere raggiungibile in quindici minuti da casa, a piedi o in bicicletta.