Gli umani sono esseri contraddittori, i robot forse no. Da una parte l’umanità s’indigna per l’invasione molesta delle tecnologie che si infilano nelle camerette chiuse, nei dispositivi e soprattutto nelle teste dei nostri adolescenti, ma non solo. Dall’altra, la stragrande maggioranza degli adulti naviga e si perde senza vergogna nei social e nelle chat mangiatempo che dominano il web.
Incontro i responsabili dell’associazione ated-ICT Ticino e penso che, come ogni prodigio scientifico che si rispetti, la tecnologia è una magia bifronte: puoi usarla bene o puoi usarla male. Loro, quelli di ated intendo, la usano benissimo. Sarà che la loro «mission» in quasi mezzo secolo d’esistenza è «informare, educare, appassionare all’informatica, facilitare i progetti innovativi e creare sinergie che portino valore aggiunto al tessuto economico e sociale del nostro cantone». Fatto sta, che quando, il 2 marzo scorso, hanno presentato a Lugano il loro ultimo progetto, ated4special (vedi articolo in basso), è apparso subito chiaro che esiste un modo davvero virtuoso e creativo di sfruttare le nuove tecnologie a tutto vantaggio, per esempio, delle persone autistiche.
Un progetto avveniristico
Ne parliamo con Federica Floris che nelle righe che seguono ci illustra in che modo un robot molto espressivo di nome iCub può aiutare i bambini autistici a vivere meglio. La dottoressa Floris – che sarà tra le relatrici all’evento del 2 aprile (vedi scheda) nel quale ated presenterà al pubblico il progetto ated4special – è esperta in neuropsicologia clinica e riabilitativa. E, soprattutto, è responsabile del Coordinamento Educativo per l’Opera Don Orione Genova, dove, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Tecnologia, coordina un progetto di ricerca Training robot-assistito per favorire le abilità sociali dei bambini con disturbi del neuro-sviluppo.
«Il progetto – spiega – nasce dall’idea di mettere concretamente la ricerca e la tecnologia più avanzata al servizio della società in un contesto puramente clinico e di cura». La sperimentazione da lei guidata è pionieristica. «Sì, perché prevede per la prima volta al mondo l’interazione tra il robot iCub e un gruppo di bambini con diagnosi di Sindrome dello Spettro Autistico già inseriti nel percorso terapeutico del Centro Boggiano Pico, il polo specializzato nel trattamento e la riabilitazione dei disturbi del neurosviluppo dell’Opera Don Orione Genova».
Con quale scopo, le chiediamo? «L’obiettivo è quello di sviluppare alcune loro competenze specifiche che risultano deficitarie come l’attenzione condivisa, la prospettiva spaziale, la capacità di comprendere intenzioni, gli stati d’animo, e i desideri dell’altro, ovvero la cosiddetta Teoria della Mente. Negli anni abbiamo osservato come i training robotici non solo rappresentino un’attività entusiasmante e di per sé stimolante per i bambini coinvolti, ma siano realmente uno strumento efficace nel processo di acquisizione di alcune specifiche competenze».
Viene da chiedersi se si notano già dei benefici e, soprattutto, se è realistico attendersi vantaggi concreti legati all’utilizzo di questo tipo di robot umanoidi. La ricerca, osserva la studiosa, non parte da zero: «Nel corso dell’ultimo decennio sono stati condotti numerosi studi sull’applicazione della robotica nel campo della disabilità. Una sezione rilevante degli studi si è focalizzata sull’utilità delle tecnologie robotiche nello stimolare le abilità deficitarie nella Sindrome dello Spettro Autistico (Autism Spectrum Disorder – ASD), dando conferma di come i robot sociali possano fornire un aiuto ai terapisti nello sviluppare diverse competenze, da quelle sociali ad alcune autonomie».
Dagli studi che si sono succeduti negli anni, osserva la dottoressa Floris, «è emerso per esempio che i robot possono aiutare a sviluppare e incrementare le competenze sociali dei bambini con autismo. Infatti, per questi bambini, l’interazione con le altre persone è disorientante, anche a causa della variegata espressività del volto umano. Interagendo con una persona, ognuno di noi viene a contatto con numerosissimi segnali sociali come le espressioni facciali, i gesti, la tonalità della voce; tutto questo per un bambino con autismo potrebbe essere difficile da interpretare. Il robot sociale diventa quindi una sorta di intermediario, affidabile e prevedibile per il bambino».
Meglio degli umani?
Un’ulteriore dimostrazione di come la robotica stia avendo un impatto sempre più inclusivo. Affiancandosi a professionisti e famiglie, la tecnologia può effettivamente agevolare la comunicazione e l’apprendimento, attraverso metodi fino a pochi anni fa impensabili. La cosa sorprendente è che il robot in alcuni casi sembra funzionare «meglio» degli umani nelle relazioni con i bimbi autistici.
«È vero. La scienza ci dice che i bambini con autismo riescono a mantenere il focus attentivo e il contatto oculare sul target robot per tempi maggiori rispetto all’interazione con un essere umano; questo è possibile ascriverlo al minor carico cognitivo ed emotivo che l’interazione con una macchina, seppur con fattezze umanoidi, implica».
Il progetto va annoverato tra altre interessanti possibilità di cura attraverso strumenti altamente tecnologici – diciamo così – alla portata di tutti. Ma con una marcia in più. «In effetti il sostegno dei robot sociali è risultato più efficace di altre terapie tecnologiche, come i videogiochi o le app: il robot incentiva l’interazione, indispensabile affinché esso funzioni. A differenza di altri strumenti come i software, che catturano completamente l’attenzione dei bambini, i robot umanoidi possono facilitare le naturali interazioni persona-persona. Migliorando i protocolli riabilitativi sull’utilizzo dei robot, incrementando le sperimentazioni, possiamo quindi immaginare che nei prossimi anni queste macchine possano diventare un nuovo strumento a disposizione dei terapisti per lavorare su determinate competenze, così come lo sono oggi app e software».