Spesso i segnali dei cambiamenti della società ci giungono per primi dalla lingua, ossia dalla diffusione di un nuovo termine o modo di dire. E sono infatti più di una le espressioni nate anche intorno a un concetto che si traduce in un fenomeno largamente diffuso nelle società occidentali e per molti soprattutto preoccupante – ad esempio a livello previdenziale o sul piano della ripartizione della ricchezza – come quello dell’invecchiamento della popolazione. Ma poiché nella società della political correctness di vecchi, o di anziani non si può parlare, si preferisce definirli rappresentanti della silver age, oppure baby boomer, over, senior…, termini che probabilmente fanno più bene a noi che li utilizziamo che non a coloro cui sono riferiti.
Lidia Ravera (che collabora con «Azione» da alcuni anni ed è autrice del romanzo a puntate Nuove povertà), dopo essere entrata nella storia letteraria d’Italia nel 1976 insieme a Marco Lombardo Radice per il suo all’epoca dissacrante – ma, visti i tempi in cui viviamo, potrebbe essere tornato scabroso – diario sessuo-politico Porci con le ali, dopo oltre trenta romanzi, decine di racconti e innumerevoli articoli, si dedica nel suo nuovo libro a quello che ha deciso di chiamare «Terzo tempo».
Quello che ci propone in Age Pride (nella foto l’immagine di copertina) è un «Terzo tempo» da sostituirsi a «terza/quarta età», così come l’espressione «grandi adulti» potrebbe sopperire a «vecchi». Se infatti partissimo da un uso della lingua più inclusivo, rischieremmo di comprendere davvero i «grandi adulti» in una società che invece spesso guarda a loro con sospetto, da una parte per i privilegi che sembrano portarsi appresso (la loro pensione, a differenza della nostra, è sicura, così come i loro risparmi, spesso, sono ancora destinati a crescere), dall’altra perché l’attaccamento che hanno alla vita, e che spesso si traduce nell’occupazione a tempo indeterminato di talune cariche professionali o politiche, può rischiare di corrispondere a una mancanza di prospettiva per le generazioni più giovani (come la vediamo in Italia, ma sempre più spesso anche da noi).
Come uscire dunque da quello che pare a tutti gli effetti un circolo vizioso non accettabile per Lidia Ravera, ma ingiusto a prescindere per tutti coloro che si trovano nella sua situazione? Anzitutto è importante una convivenza effettiva tra puer e senex: giovani e non-giovani non dovrebbero condurre vite separate.
Lidia Ravera, che dal 2013 al 2018 è stata anche Assessore alla Cultura e Politiche giovanili della Regione Lazio, pur lamentando la mancanza di un Assessorato alle politiche senili (per «censire i vecchi, ascoltarli, studiarli, riflettere su questi trent’anni che prima non c’erano, che non ci sono mai stati e adesso ci sono»), riconosce come giuste le rivendicazioni di quell’ampia fascia generazionale che comprende i cosiddetti giovani, ma invoca anche una maggiore impostazione intergenerazionale per la nostra società, in grado di offrire a entrambe le categorie anagrafiche un campo comune di crescita e di scambio: «Io credo che la solidarietà intergenerazionale sia possibile solo se i vecchi sono generosi e i giovani curiosi. Credo che non sia possibile se striscia l’invidia (dei vecchi verso i giovani) o il disprezzo (dei giovani verso i vecchi)».
Ravera però si spinge oltre, restringendo ancora di un poco il campo di osservazione per soffermarsi su una ulteriore categoria, che potremmo chiamare «delle grandi anziane». Non senza una certa irriverenza (a un certo punto si chiede cosa penserebbe l’opinione pubblica se una donna si presentasse come Giuliano Ferrara) osserva come a fare le spese dell’implacabile trascorrere del tempo siano soprattutto le donne, ossia quella parte della società che per definizione ancora gode di diritti minorati, e che una volta scaduto il tempo biologico con la menopausa, si riduce a un involucro sterile (a differenza dell’uomo il cui potenziale riproduttivo non conosce necessariamente data di scadenza), inutilizzabile e dunque spesso inutilizzato.
E proprio questa pressione sociale, o la mancanza di qualsivoglia forma di pressione, poiché sostituita dall’indifferenza generalizzata della società, indurrebbe sempre più rappresentanti dell’universo femminile a cercare nella chirurgia, con tutte le sue diramazioni tecnologiche, un modo per fermare o rallentare almeno il tempo esteriore. Questo tipo di soluzione però, passeggera oltre che schiavizzante, è per Ravera inaccettabile, ma, si chiede, «Che cosa possiamo fare? Che cosa possiamo fare per smettere di essere considerate merce scaduta quando non ovuliamo più?».
Di soluzioni, forse però ce ne sarebbero più di quelle che si potrebbero pensare. Innanzitutto, le donne che hanno superato i sessant’anni dovrebbero eliminare una vergogna (per il proprio corpo, per l’età) che non ha alcuna ragione di esistere, imparando così a vivere da soggetti, invece che da oggetti; poi, per rendere più chiara la potenziale buona direzione da prendere, Ravera offre una lunga lista di cose che si «potrebbero fare», o meglio basterebbe fare, come (e ne citiamo solo alcune) «esporre con orgoglio le poderose conquiste dell’intelligenza, del gusto, dell’ironia», «sventolare la bandiera della durata, che non è noia, non è ripetizione», «ribellarsi invece di obbedire alla legge del mercato dei corpi eterni».
Oppure, in ultima istanza, e qui Lidia Ravera dimostra come gli anni trascorsi non ne abbiano scalfito la verve ironica, «Basterebbe guardare gli uomini (…) che se ne stanno lì, tutti impennacchiati, ad aspettare di essere scelti. Scelgono. Si comportano da soggetti di desiderio. Impariamo anche noi».