Parlare con gli sconosciuti può essere stimolante, anche se abbiamo quasi smesso di farlo. Tra le cause, gli smart-phone onnipresenti che sembrano avere annullato qualsiasi tipo di curiosità nei confronti degli altri. Spesso la sola idea di «attaccare bottone» risulta assurda, per la remora di essere inopportuni. E la pandemia rappresenta un fattore inibitorio aggiuntivo. Eppure, diverse pubblicazioni, uscite negli ultimi mesi negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, indicano che dovremmo ricominciare a interagire con gli estranei. In The Power of Strangers. The Benefits of Connecting in a Suspicious World (Il potere degli sconosciuti. I benefici delle interazioni in un mondo sospettoso), il giornalista Joe Keohane cerca di capire cosa succede quando accorciamo la distanza tra noi e le persone che non conosciamo.
Prendendo in esame una serie di analisi sul tema, Keohane ha scoperto che gli scambi momentanei possono migliorare l’empatia e lo sviluppo cognitivo, alleviare la solitudine e l’isolamento e radicarci nel mondo, aumentando il nostro senso di appartenenza. Lui stesso si è messo alla prova, cercando di capire come superare l’imbarazzo del primo approccio. Ha partecipato a un workshop a Londra, pensato proprio per fare pratica di conversazione con gente mai vista prima. Ha intrapreso un viaggio da Chicago a Los Angeles durante il quale si è impegnato a parlare con chiunque incontrava. Le diverse esperienze lo hanno portato a confermare ciò che dicono gli studi: in una società nella quale si enfatizzano sempre di più la paura, la sfiducia e l’odio per gli sconosciuti, chi si connette con gli estranei ne beneficia.
Secondo una ricerca appena pubblicata sul «Journal of Personality and Social Psychology», parlare con chi non si conosce ha una serie di vantaggi che aumentano, se si avvia un dialogo profondo. Il team formato dai ricercatori Michael Kardas, Amit Kumar e Nicholas Epley, ha scoperto, dopo decine di esperimenti, condotti su un campione di mille e ottocento partecipanti, che quando viene condiviso qualcosa di significativo e importante tra sconosciuti, la chiacchierata diventa intensa da entrambe le parti. Michael Kardas racconta ad «Azione»: «C’era chi ha discusso di argomenti superficiali, ad esempio del tempo atmosferico. Altri, invece, si sono confrontati rispondendo a domande come questa: “Puoi descrivermi quella volta che ti sei messo a piangere in una situazione pubblica?”». Chi ha parlato di questioni personali si è sentito più connesso e felice di quanto avrebbe mai pensato prima. I discorsi profondi non hanno creato imbarazzo, al contrario, c’è stata la voglia di continuare il rapporto, con la possibilità di iniziare un’amicizia.
Lo studio ci interroga su un paradosso: se relazionarsi in modi significativi aumenta il benessere, allora perché sentiamo spesso i classici «discorsi da bar» tra chi fa due chiacchiere? Kardas risponde: «Ci è stato detto che si tende a parlare di cose superficiali, nonostante si vorrebbe entrare nel merito di questioni più consistenti, perché si ha paura che gli altri non siano interessati». Non resta quindi che provare, la prossima volta che usciamo di casa. Ma superare la timidezza iniziale, soprattutto per chi non è abituato, non è così facile. Il consiglio di Kardas è di buttarsi, con un semplice «ciao», aspettando di capire che risposta si riceve, se è incoraggiante. Con il tempo, si imparerà a capire, a pelle, quali sono le persone interessate. E più i confronti diventeranno intensi, più si resterà positivamente colpiti dall’esperienza.
Will Buckingham, accademico e scrittore, descrive le sue esperienze in Hello, Stranger: How We Find Connection in a Disconnected World (Ciao sconosciuto: come troviamo un legame in un mondo disconnesso). Il punto di partenza del suo racconto è la morte della moglie per cancro. «Avevo bisogno del conforto dei miei amici, ma anche degli estranei che non sapevano nulla di me, fino a quel momento», scrive. Già prima del lutto, Even era abituato a interagire con chi non conosceva. Cresciuto in una casa dove l’ospitalità era una costante, da ragazzo e adulto ha viaggiato molto, trascorrendo lunghi periodi in Indonesia, Cina e Myanmar e altrove. Secondo lui, dato che viviamo circondati da estranei, è impensabile non relazionarci a loro in continuazione.
Il suo libro fa riferimento a testi dell’antica Grecia come l’Odissea di Omero. Pur non ignorando la xenofobia e il sospetto diffuso, Buckingham enfatizza la tradizione della filoxenia, una parola del Nuovo Testamento che indica «la curiosità e il desiderio di connettersi a chi è diverso da noi». Lui si è fatto ospitare in case di gente mai vista prima, dalla Bulgaria al Pakistan, e ha ricambiato nei periodi in cui tornava in Gran Bretagna. Certo, la pandemia ha cambiato tutto e ci ha lasciati senza grandi risposte: Buckingham non sembra avere una soluzione. Ricorda l’incertezza della sua vita in Bulgaria, mentre emergeva dal lockdown, ma ha un messaggio di speranza: «Le pandemie vanno e vengono. Se riuscissimo ad aggrapparci al bisogno che abbiamo gli uni degli altri, quando la tempesta sarà passata, saremo pronti a riaprire le porte, riconnetterci, abbracciarci e uscire, costruendo un mondo condiviso nel quale valga la pena vivere».
Un’attitudine raccomandata da un testo di qualche anno fa, Consequential Strangers: The Power of People Who Don’t Seem to Matter… But Really Do (Sconosciuti importanti: il potere delle persone che sembrano non contare… ma che contano davvero). Le autrici Karen Fingerman, professoressa all’Università del Texas, e la scrittrice Melinda Blau, scrivevano che chiacchierare con il barista, la commessa, la parrucchiera e chi vediamo in palestra o in stazione, crea un senso di comunità, dandoci l’idea di appartenere a qualcosa di più grande e arricchisce la nostra quotidianità con emozioni nuove. Esperienze che il mondo virtuale non riesce a replicare con la stessa forza e imprevedibilità.