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Su e giù tra entusiasmi e nostalgie
Giancarlo Dionisio
La prima pagina della «Gazzetta dello Sport», sabato 7 giugno, apre con un eloquente Meno male c’è Sinner. Poco sotto, a caratteri cubitali, si legge «Basta», riferito alla nazionale azzurra, strapazzata in Norvegia per 3 a 0, e già costretta a rivedere i suoi progetti di qualificazione alla Coppa del Mondo del 2026. A piè di pagina, Luigi Garlando, editorialista, scrittore e narratore, inventa la storia di un ragazzino di nome Pietro. Ha 15 anni. Non ha potuto gioire della presenza della sua nazionale alle due ultime edizioni del Mondiale. Rischia di rimanere a bocca asciutta anche al prossimo appuntamento. Se andrà bene, potrà tifare Italia nel 2030. Avrà 20 anni. «Vent’anni passati senza mai vedere azzurro in una Coppa del mondo. Pietro cambia canale. Al posto della ripresa, vede Jannik Sinner: talento, cuore, volontà, sacrificio. Datemene undici così, per favore».
Al termine della lettura ho avuto due tentazioni. Suggerire all’autore che si disputano Coppe del Mondo anche in altre discipline sportive. Contattare Pietro per dirgli che l’azzurro lo potrà vedere. Quello dei Francesi, anche se loro si considerano «les bleus».
La mia «vis polemica» è stata tuttavia stemperata da una botta di nostalgia. Dopo aver assaporato lo spettacolo offerto nel pomeriggio da Lorenzo Musetti e Carlos Alcaraz, e dopo aver appurato in serata che Sinner (pure io, come Pietro, ero sintonizzato sul tennis) aveva dato la picconata definitiva al regno di Novak Djokovic, ho ripensato alle ore di trepidazione trascorse quando in campo c’era Roger Federer. Mi sono consolato aggrappandomi all’idea che King Roger è considerato un modello da parte dei due talenti italiani.
Una consolazione pallida, schiacciata dalla consapevolezza che le emozioni che ci ha regalato il Genio basilese, ora ce le offrono tennisti che difendono altri colori. L’azzurro in primis. Non a caso, in Italia, in più di un’occasione, il tennis ha sottratto al calcio le prime pagine dei media sportivi e non solo. In Svizzera, stiamo vivendo una tendenza opposta. L’interesse nei confronti del tennis sta scemando, nonostante la qualità eccelsa del gioco proposto dagli attuali leader mondiali.
È un fenomeno strano, insondabile, quello che regola le relazioni tra discipline sportive, campioni e pubblico. In passato, in Svizzera, ci siamo scoperti appassionati, e persino esperti, di vela. Ciclicamente, ogni 4 anni, togliamo dal baule il regolamento delle partite di curling, per poterci sistemare in poltrona per 3 o 4 ore, a palpitare, con cognizione di causa, per le imprese di atleti e atlete in maglia rossocrociata che fanno scivolare delle pietre sul ghiaccio, oppure che, il ghiaccio lo spazzolano. Se lo facciano per frenare o per accelerare l’incedere della pietra, non l’ho ancora capito.
Non voglio né snobbare, né sminuire nessuno sport. Ma questo attaccamento ondivago alle varie discipline, a dipendenza della presenza di atleti di punta del nostro Paese, mi fa venire il sospetto fondato che noi spettatori abbiamo un bisogno quasi disperato di identificazione. In un colore, una bandiera, una cultura.
Tendenzialmente, almeno stando a quanto si legge sui social media, siamo sempre più propensi a negare questa facoltà alla politica e all’economia. Queste, ci dispensano piuttosto dei grattacapi. Lo sport, invece, ci fa vibrare, ci fa sentire uniti, figli di uno stesso territorio, adepti di un’unica religione. Federer, i tecno-marinai di Alinghi, Marco Odermatt, Nino Schurter, i ragazzi di Patrick Fischer, la skip Silvana Tirinzoni, sono stati – alcuni lo sono ancora – i nostri sacerdoti e le nostre sacerdotesse. Sulle loro spalle grava una responsabilità enorme. Oggi più che mai. In un’epoca di incertezze, paure e fragilità dettate da guerre, massacri, e costante calo del potere d’acquisto, un buon risultato sportivo può essere consolatorio.
«Avanti, Pietro, con giudizio», direbbe il Ferrer dei Promessi Sposi. Continuiamo a investire nello sport, che si tratti di grandi eventi d’élite o di strutture per il cosiddetto «Breitensport», lo sport di massa. Ma non dimentichiamo che la vita prosegue, nel bene e nel male, anche dopo il triplice fischio finale. In questo senso, credo che tutti i mass media dovrebbero responsabilmente modulare il focus tra esaltazione e relativizzazione. Affinché noi appassionati si possa godere di ogni evento, senza correre il rischio di finire fuori giri per eccesso di attaccamento ai colori. L’eccesso che dalla passione conduce al fanatismo.