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Sedici anni più tardi

/ 26/05/2025
Giulio Mozzi

Suona il telefono. Rispondo.
«Ehilà, Giulio, come va? Ti ricordi di me?», dice una voce maschile.
«Buongiorno», dico. «Purtroppo non riconosco la voce».
«Sono Enrico», dice Enrico.
«Buongiorno, Enrico», dico. «Ma quale dei tanti Enrico che conosco?».
«Ci siamo conosciuti a una conferenza», dice Enrico.
«Quale conferenza?», dico. «Quando?»
«Ma nel duemila e sei, a Novara», dice Enrico.
«Oibò», dico. «Diciannove anni fa. A Novara. Sinceramente, non ricordo».
«Ma sì, dài», dice Enrico, «dopo la conferenza siamo andati a prendere un caffè».
«Non lo so», dico, «non ricordo. Ma non è importante. Posso sapere il suo nome?».
«Enrico», dice Enrico.
«Enrico e poi?», dico.
«Presciuttini», dice Enrico.
«Aspetti, aspetti…», dico. «Parente di Paola?».
«Paola chi?», dice Enrico.
«Paola Presciuttini», dico.
«Mai sentita», dice Enrico.
«Ho letto un suo bel romanzo storico, qualche anno fa», dico.
«Ma perché mi tiri fuori questa Paola Presciuttini?», dice Enrico.
«Ma così», dico, «lei mi chiama, di punto in bianco, mi dice che dovrei ricordarmi di lei, sto scandagliando la mia memoria».
«Comunque io con questa Paola Presciuttini non c’entro», dice Enrico. «Che importanza ha se c’è un’altra persona col mio stesso cognome?».
«Nessuna», dico, «ha ragione».
«Ah, ecco», dice Enrico.
«Ma veniamo al dunque», dico: «qual è il motivo della sua chiamata?».
«Intanto ci davamo del tu», dice Enrico.
«Va bene», dico. «Qual è il motivo della tua chiamata?».
«Ti mandai un romanzo da leggere, dopo il nostro incontro», dice Enrico.
«Ah», dico.
«Non te ne ricordi?», dice Enrico.
«No», dico.
«Comunque fosti molto gentile», dice Enrico. «Qualche settimana dopo mi scrivesti per dirmi che ti era sembrato orribile».
«È possibile», dico.
«Ho apprezzato molto la tua schiettezza», dice Enrico.
«Meno male», dico. «C’è chi se la prende, per un giudizio negativo».
«Io me la sono presa un sacco», dice Enrico.
«Ah», dico. «Mi pareva di aver capito il contrario».
«Sono andato in depressione», dice Enrico.
«Mi spiace», dico.
«Per sei anni non sono stato capace di scrivere una sola parola», dice Enrico.
«Non so che dire», dico.
«E tutto perché tu non ti limitasti a dirmi che il mio romanzo non ti era piaciuto», dice Enrico. «Tu mi dicesti proprio che era orribile. Orribile».
«Posso aver sbagliato tono», dico.
«Ma te ne sono grato, sai?», dice Enrico.
«Mi sei grato di averti mandato in depressione?», dico.
«Era un brutto momento», dice Enrico, «se non andavo in depressione per quello sarei andato in depressione per qualcos’altro».
«In che senso?», dico.
«Mia moglie mi aveva lasciato», dice Enrico.
«Ahi!», dico.
«Bah, ormai sono tanti anni», dice Enrico. «E poi io la tradivo di continuo».
«Insomma, il vostro matrimonio era alla frutta», dico.
«Poi ho perso il lavoro», dice Enrico.
«Santo cielo», dico.
«Con mia moglie avevo una lavanderia», dice Enrico. «Era sua. Appena ha avuto il divorzio mi ha licenziato».
«Ma hai trovato un altro lavoro?», dico.
«Ancora no», dice Enrico. «Il mercato delle lavanderie è un po’ fermo».
«Ma quindi sono –».
«Esatto», dice Enrico, «sono sedici anni che non lavoro».
«Ma come fai a mantenerti?», dico.
«Ho vinto un milione e ottocentomila euro al lotto», dice Enrico. «Una settimana dopo il divorzio».
«Ah», dico.
«Pensa che se li vincevo un mese prima mi toccava dividerli con lei», dice Enrico.
«Ma dunque», dico, «qual è il motivo di questa telefonata?».
«Quel romanzo», dice Enrico.
«Quell’orribile romanzo?», dico.
«Sì», dice Enrico Presciuttini.
«Cos’hai da dirmi di quel romanzo?», dico.
«Mi è capitato tra le mani la settimana scorsa», dice Enrico, «e l’ho riletto».
«E?», dico.
«Fa cagare», dice Enrico. «Fa veramente cagare».