Gli italiani lo chiamavano don Guglielmo, ma il suo nome era Wilhelm Friedrich Waiblinger. Aveva deciso di stabilirsi a Roma. Era malato e più la sua salute declinante lo strappava alla vita – che amava furiosamente –, più riaffiorava, potentissimo, il ricordo dell’incontro che aveva segnato – e cambiato – il corso della sua esistenza. Era accaduto a Tubinga, ma fu a Roma, in un appartamento dietro via Giulia, che scrisse Hölderlin. Vita poesia e follia. Rimasto inedito fino al 1947, è uno dei suoi pochi libri tradotti in italiano.
Nato ad Heilbronn, nel Wűrttemberg, sulla riva del Neckar, nel 1804, Waiblinger andò a studiare teologia e filosofia in un austero seminario luterano di Tubinga. Era il 1822. Un giorno un conoscente gli chiese di accompagnarlo in visita da un singolare poeta – Hölderlin. Waiblinger, giovanissimo, aveva letto solo un suo componimento, e acconsentì – incuriosito. Hölderlin alloggiava nella casa del falegname Zimmer, in una stanza della torre. Dietro la porta chiusa, il ragazzo lo sentì blaterare a gran voce: ma non c’era nessuno, Hölderlin parlava da solo. Già da anni era scivolato nell’ottenebramento che lo inghiottì, come la nuvola una cima, a metà della vita. Li accolse con modi esageratamente cerimoniosi, inchinandosi. I suoi soliloqui sconnessi in una lingua inventata non avevano senso. La sua vuota cortesia serviva a tenere a distanza gli intrusi. Il mondo intero era per lui un intruso. Quando i suoi occhi spasmodici si posarono sul ragazzo, a Waiblinger si ghiacciò il sangue nelle vene. Terrorizzati, i due fuggirono.
Ma Waiblinger, emotivo e precoce (a diciott’anni, ancora studente del liceo, frequentava i maggiori scrittori svevi e aveva già composto una tragedia e svariate liriche; a diciannove aveva scritto tre romanzi, di cui uno su un vampiro e un altro dato poi alle fiamme), non riuscì a dimenticare quell’uomo, anzi rimase sconvolto dalla grandezza della sua poesia e del suo destino. Annotò nel diario che «Hölderlin è l’uomo che cercavo», «l’eroe del mio romanzo, uno che diventa folle per ebbrezza divina, per amore e per aspirazione verso gli dèi».
Si fece coraggio e tornò a visitarlo. (Quasi cento anni dopo, quelle visite ispirarono a Herman Hesse un bel racconto, Nel chiosco di Pressel: la letteratura alimenta se stessa). Hölderlin, smarrito nel caotico fluire dei suoi pensieri, non riconosceva nessuno, ma riconobbe lui, definendolo «un uomo gentile». Lo chiamava Vostra Santità, e voleva essere chiamato Killalusimeno. Il poeta divino seguiva docilmente il poeta adolescente in giardino, tra i vigneti e nella sua casa sul monte Osterberg. Più sensibile di uno psichiatra, il ragazzo intuì che ricordare il passato e la sua opera gli scatenava crisi di ansia, frenesia, violenza e delirio. Così non si parlavano quasi. Camminavano per ore. La visione della natura lo rasserenava. Hölderlin coglieva fiori e si riempiva le tasche di sassi e pezzi di ferro. Fumava la pipa. A volte scriveva versi di semplicità omerica, guardando una pecora che passava sul ponte. Li donava cortesemente al suo compagno. A volte cantava melodie incomprensibili, o suonava il pianoforte – una musica ossessiva, come uno spartito suonato da un bambino. Wilhelm sentì che quell’uomo spezzato era l’essere più simile a lui sulla terra.
Anche Waiblinger, infatti, era uno spirito libero, eccentrico, autodistruttivo e ribelle, a disagio nel mondo. Fu punito dalle autorità perché si vestiva a modo suo, perché usciva di notte, perché vagabondava. Camminare senza scopo era considerato sintomo di follia. Tentò perfino di uccidersi. Poi si innamorò della nipote di un professore: lo scandalo fu grande, tanto che nel 1826 fu espulso dal seminario per condotta immorale. Allora fece come tutti i giovani inquieti del suo tempo: prese in prestito un po’ di denaro (dal suo editore) e partì alla ricerca del sole e della luce dolce del sud. Weiblinger era già stato in viaggio a Milano e Venezia, vagabondando: nel Belpaese non si era puniti per questo. L’Italia – povera ma ricca di bellezza – gli aveva dato ciò che cercava: la libertà. Ma prima di lasciare la Germania per sempre andò un’ultima volta a trovare il suo malinconico amico e lo invitò a essere il suo compagno di viaggio. Hölderlin rise.
(Continua)