Quando a crescere sono i «bad jobs»

/ 26.09.2022
di Angelo Rossi

Stando alla statistica trimestrale nazionale, dal 2010 al 2020 l’effettivo delle persone occupate è salito in Ticino da 212’200 a 231’900 unità. Il tasso di aumento annuale dell’occupazione, in questo periodo di relativa stagnazione economica, è stato pari allo 0,85%. Eccezionale! Nel medesimo periodo di tempo la popolazione attiva residente (ossia quelle persone che avrebbero potuto essere occupate nell’economia cantonale) è diminuita da 175’900 a 174’700 unità. Stando a queste statistiche, quindi, per equilibrare l’offerta e la domanda di lavoro, l’effettivo dei frontalieri avrebbe dovuto aumentare, tra il 2010 e il 2020, di 20’900 unità (19’700 per l’aumentato fabbisogno più 1’200 in seguito alla diminuzione della popolazione attiva residente). Se diamo un’occhiata alla loro statistica ci accorgiamo che l’aumento tra il 2010 e il 2020 è stato in effetti pari a 23’750 unità. Siccome le statistiche sul mercato del lavoro sono tutte derivate da inchieste e non da censimenti a tappeto, possiamo affermare che la differenza tra l’aumento segnalato dalla statistica dei frontalieri e quello che si può stimare partendo dai dati sull’occupazione e da quelli concernenti la popolazione attiva residente non è eccessiva: l’ordine di grandezza è il medesimo.

Nei media cantonali questa evoluzione viene di solito commentata con apprezzamenti di natura contraddittoria. Ogni qualvolta l’Ustat rende noto che l’occupazione è aumentata, il coro dei commenti è all’unisono positivo. Quando poi esce la statistica trimestrale dei frontalieri che segnala un ulteriore aumento del loro effettivo i commenti sono o neutrali o negativi. Sono invece veramente poche, anche tra i ricercatori, le voci di coloro che giudicano in modo negativo l’andamento globale del mercato del lavoro ticinese. E ancora meno quelle di chi si domanda perché e dove l’occupazione continua a crescere. Ora, in seguito a stime sull’evoluzione di domanda e offerta di lavoro nei prossimi cinque anni, ci si è accorti che, con grande probabilità, il fabbisogno di manodopera supplementare delle aziende ticinesi sarà concentrato in rami e professioni che non richiedono un livello alto di formazione o specializzazione, quelli che gli specialisti del mercato del lavoro definiscono con il termine di «bad jobs». Si tratta di occupazioni, frequentemente di natura precaria, che non richiedono qualifiche particolari e che, in generale, sono mal remunerate. Che nelle condizioni di sviluppo attuali si creino soprattutto posti di lavoro di questo tipo è un fenomeno che gli specialisti attribuiscono alla terziarizzazione dell’apparato di produzione.

Senza voler entrare nei dettagli di una spiegazione, che sicuramente ha bisogno di essere confermata nel caso specifico, ricorderemo che – salvo eccezioni – la produttività dei rami del settore terziario è inferiore a quella dei rami del settore secondario. È per questa ragione che le remunerazioni del terziario sono di solito inferiori a quelle del secondario. Un musicista con diploma di conservatorio, se deve vivere solamente dell’introito dei suoi concerti, guadagna annualmente certamente meno della metà di quello che può guadagnare un operaio metallurgico. Anche in questo caso vale la clausola salvo eccezioni. E non parliamo di altre occupazioni in netta crescita come i «riders», fornitori di pizze a domicilio, o le badanti. Inoltre la terziarizzazione dell’apparato produttivo ha condotto a un aumento importante della quota di indipendenti, non da ultimo nel digitale. In molti casi si tratta però di persone che offrono servizi alla popolazione in micro-aziende che faticano a far quadrare i bilanci a fine anno.

Infine, in Ticino, la ristrutturazione di un settore dei servizi ad alta produttività come quello finanziario ha a sua volta contribuito a ulteriormente frenare l’aumento delle remunerazioni. Queste tre tendenze sono responsabili per la diffusione dei «bad jobs». Questi non sono però solo posti di lavoro poco o mal remunerati. Sono anche posti di lavoro che offrono ai lavoratori dipendenti condizioni di occupazione precarie, caratterizzati in particolare da bassi livelli di occupazione, non di rado inferiori al 50%. È chiaro che questa situazione non corrisponde alle aspirazioni dei lavoratori, in particolare a quelle dei giovani che, anno per anno, entrano nel nostro mercato del lavoro e che cercano occupazioni a tempo pieno, ben remunerate e con ottime possibilità di carriera. Ma non è facile consigliare che cosa si dovrebbe fare per modificare le tendenze in atto. Quel che è certo è che non basteranno limitazioni dell’immigrazione o del frontalierato per risolvere il problema.