Nuove speranze piene di timori

/ 28.11.2016
di Franco Zambelloni

La notizia è rimbalzata rapidamente nei media: una ragazza inglese quattordicenne ha ottenuto di farsi congelare post mortem, in attesa di un progresso medico che permetta di riportarla alla vita e guarirla dalla rara forma di tumore che ne ha causato la morte.

È una comprensibile e commovente ricerca d’immortalità, ma ben diversa da quella sognata per millenni: questa nuova immortalità è trasferita dal cielo in terra. Nella più remota antichità, secondo gli studi antropologici, dallo stupore e timore della morte ebbero inizio i rituali magici, la superstizione, le religioni; di qui, appunto, le pratiche di inumazione e imbalsamazione. Ma se torniamo alle origini di questi rituali, appare evidente che la sopravvivenza dopo la morte era allora concepita come un prolungamento della vita corporea in un «al di là» non meglio identificato: i cadaveri venivano sepolti con un corredo di cibo, bevande, armi – un bagaglio che doveva evidentemente servire a soddisfare i bisogni di un corpo in viaggio verso un «altrove».

Anche nella tradizione ebraica, cristiana e islamica l’immortalità è concepita come una «resurrezione dei corpi». E anche il paradiso era immaginato in modo molto concreto: la parola stessa, nella sua etimologia iranica, significa «giardino»; e come un giardino di delizie (in fondo, l’Eden delle origini) – con un clima ideale, frutta e cibo in abbondanza, nessuna malattia – veniva infatti concepito per la maggior parte della storia. Quanto all’inferno, basta pensare alla Commedia dantesca per rendersi conto che le pene infernali sono tutte afflizioni corporee, sofferenze fisiche.

Agli albori della civiltà, l’immortalità era appannaggio di pochi: di quelli, cioè, che disponevano di ricchezza e potere. I faraoni egizi, ad esempio: le spese per la mummificazione, gli oli, gli unguenti, il sarcofago e la tomba monumentale facevano sì che l’immortalità non fosse per tutte le borse. Le pratiche per l’immortalità erano dunque appannaggio della corte imperiale e della sua casta sacerdotale, avviate verso un gioioso aldilà. Ora la nuova strategia d’immortalità inverte la rotta: non si tratta di mettersi in viaggio verso un cielo lontano, ma di entrare in una sala d’attesa criogenica con la speranza di un risveglio – o una resurrezione – qui sulla terra, fra cento o duecento anni. L’antico sogno di una sopravvivenza alla morte non è affatto svanito, ma nel caso dell’ibernazione ci si affida a ipotetici progressi della scienza e non al supporto religioso. Quello che non cambia, è il costo: l’ibernazione della ragazza inglese ha richiesto circa 200’000 dollari.  

Restano, ovviamente, enormi incognite. Supposto che l’ibernato si risvegli da un sonno secolare, quale potrebbe essere il suo stato di salute mentale? E supposto che il risveglio abbia luogo senza un deperimento delle facoltà cerebrali, come si ritroverebbe il risorto in un mondo profondamente diverso da quello in cui era nato? Ma, soprattutto: qualora la scienza riuscisse davvero a sconfiggere la morte, che ne sarebbe della vita? Un filosofo contemporaneo, Hans Jonas, alla luce delle nuove possibilità suggerite dall’avanzamento del sapere medico e tecnologico, osservava già qualche decennio fa che la morte non appare più come una necessità del vivente, ma come una disfunzione organica a cui si può forse porre rimedio; e riteneva che per la prima volta diventi dunque necessario interrogarsi seriamente: «Fino a che punto tutto questo è auspicabile? Quanto è auspicabile per l’individuo e quanto lo è per la specie?». E Jonas elencava poi una serie di interrogativi che per ora sembrano ancora procrastinabili, ma ai quali forse occorrerà dare risposta in un futuro più o meno lontano: chi dovrà beneficiare di questo prolungamento della vita? Chi ha i soldi per permetterselo? Oppure tutti quanti? Ma non è pensabile un sovraffollamento demografico senza limiti; dunque, prolungare indefinitamente la vecchiaia comporterà necessariamente una ferrea limitazione delle nascite?

Le domande si affollano in modo vertiginoso, e non hanno risposte: certo è che bisognerà trovare anche un altro senso alla vita. Quel perenne finire e l’incessante ricominciare che costituiscono il ritmo biologico della vita, se imprigionati in un presente senza fine rischiano di affondare nella noia ripetitiva. Ciò che ha avuto un inizio si volge a una fine; esserne consapevoli è la ragione per far contare ogni attimo dell’esistenza, per viverla compiutamente.