Il business della beneficenza

/ 18.04.2017
di Angelo Rossi

Ho deciso di scrivere questa nota sul mercato della beneficenza dopo aver risposto a un’inchiesta di una delle molte ong (organizzazioni non governative) che cercano di diminuire la grande miseria che c’è ancora in questo mondo. Nella stessa si cercava di appurare in quale misura i benefattori conoscono le campagne pubblicitarie dell’ong in questione. Hai letto bene, caro lettore, agli organizzatori dell’inchiesta non interessava se il benefattore sapesse delle attività condotte, a sostegno dei miseri, in questo o in quel paese povero, ma piuttosto se aveva notato la campagna pubblicitaria fatta dall’organizzazione di beneficenza in questione.

Siccome io non vado in giro con il naso per aria a cercare se vi sono cartelloni che parlano della miseria nel mondo ho risposto a tutte le domande del questionario per la negativa. A una domanda finale aperta che dava la possibilità di esprimere la mia opinione sulle campagne pubblicitarie di questo tipo ho risposto che mi sembrava fossero solo uno sperpero di risorse scarse che l’ong avrebbe fatto bene a utilizzare in modo più diretto per alleviare la miseria. Per me questa inchiesta è l’ultima prova (forse la più deleteria) di una tendenza alla superprofessionalizzazione della raccolta di fondi a favore delle persone o delle regioni bisognose alla quale bisognerebbe, in un modo o nell’altro, dare finalmente un grande taglio. Nel corso degli ultimi anni le organizzazioni di beneficenza devono aver scoperto che si raccoglie di più se, invece di attendere che i benefattori mettano mano al loro portafoglio, li si sollecita contattandoli frequentemente, o facendo gentilmente pressione in altri modi, per convincerli a versare importi sempre maggiori, con sempre maggior frequenza.

E non si limitano a fare un appello. No, nelle loro buste, per impedire che il destinatario non reagisca come desiderano, includono sempre un piccolo regalo o dei biglietti di augurio. Così uno, dopo aver aperto la missiva, si sente obbligato a mandare almeno un piccolo obolo. Vi sono poi anche organizzazioni che fanno pressione perché il benefattore sottoscriva una specie di promessa di aiuto a tempo indeterminato per una somma ben precisa, fissata dall’organizzazione stessa. Altre ti contattano addirittura per telefono per sollecitarti a far parte dei loro «club di beneficenza». Accettando di far parte di questi «club di beneficenza» uno può guadagnarsi la riconoscenza di bambini, orfani, malati, invalidi, donne, o di qualunque altra popolazione necessiti aiuto di cui si occupa l’organizzazione in questione. Vi sono poi le organizzazioni di beneficenza che hanno moltiplicato i loro indirizzi di raccolta. Si può così versare il proprio obolo o all’organizzazione nazionale, o alle sezioni cantonali. Oppure, sempre nel senso della diversificazione, si creano iniziative particolari per le quali la stessa organizzazione raccoglie fondi ma per scopi o per progetti diversi.

Questi sviluppi fanno pensare che oggi, nel mercato della beneficenza, la concorrenza tra i raccoglitori di fondi deve essere enorme e che quindi sia necessario insistere con il marketing. Fanno anche pensare che, nelle organizzazioni di beneficenza stesse, o nel mercato dei servizi, esistano specialisti del come identificare possibili benefattori e del come sollecitare dagli stessi un contributo sempre maggiore. Nelle zone urbane, ogni famiglia riceve, almeno tre volte la settimana se non di più, un appello di raccolta fondi da parte di una qualunque organizzazione di beneficenza. Il risultato è che il potenziale benefattore resta confuso e non sa come comportarsi davanti a questa valanga di sollecitazioni. Di recente, in un articolo della pagina economica di un quotidiano svizzero che va per la maggiore, si invitavano i benefattori a non disperdere i loro mezzi e a concentrarli su quelle organizzazioni che impiegavano i mezzi raccolti in modo efficiente e, cioè, investendoli direttamente là dove l’aiuto è necessario.

Il problema è però che Pinco Pallino, potenziale benefattore, non è in grado di giudicare quale sia l’organizzazione maggiormente efficiente. Nei loro appelli tutte promettono di salvare vite e di aiutare. Al massimo, il benefattore potenziale può distinguere tra le organizzazioni che svolgono la loro attività in Svizzera e quelle che invece si occupano della miseria nel mondo. Ma non dispone di altri parametri per comparare le loro attività. In attesa che qualcuno faccia una classifica dell’efficienza delle organizzazioni di beneficenza, io continuo ad aiutare, senza fare nessun altro tipo di scelta, quelle 42 alle quali, da sempre, verso il mio modico contributo. Per le altre spero che ci pensino i miei connazionali.