L’Italia frastornata dal voto anticipato ricorderà tra circa un mese il centenario della marcia fascista su Roma: 28 ottobre 1922. Per una parte del Paese sarà occasione di celebrazione, per un’altra di esecrazione. Toccherà al nuovo Governo, se già insediato, dare il tono alla ricorrenza. Il fantasma di Mussolini non è mai del tutto sparito dal proscenio politico della penisola: vedremo sotto quali forme riapparirà nel corso delle iniziative ottobrine. Il Duce è comunque oggetto di attenzioni crescenti già da qualche mese: se ne stanno occupando tutti, televisioni e giornali, pubblicisti e storici. Anche l’editoria è in grande fermento, con riedizioni di testi classici e nuovi titoli. Ma, si sa, ogni generazione avverte il bisogno di ripensare il passato a modo suo, secondo le esigenze, gli equilibri e gli umori del momento. E il 2022 è un anno particolarmente significativo per i cambiamenti che si profilano all’orizzonte.
Nel canton Ticino di un secolo fa quella prova di forza passò quasi del tutto inosservata: notiziole, qualche colonnina dell’agenzia Stefani, rari i commenti e tardivi. Solo il quotidiano socialista «Libera Stampa» denunciava le dilaganti aggressioni degli squadristi. Le prime pagine erano occupate dalle elezioni al Nazionale (29 ottobre) e dalla votazione per modificare sul piano costituzionale la nomina del Consiglio di Stato e del Gran Consiglio (5 novembre). In queste due occasioni politici e redattori (che spesso riassumevano in sé la doppia funzione) se le davano di santa ragione. Molto più clamore aveva invece sollevato la marcia che Gabriele D’Annunzio aveva orchestrato con i suoi legionari nel 1919 per annettere la città adriatica di Fiume (oggi Rijeka, in Croazia) al Regno d’Italia, in aperta violazione degli accordi di pace. L’impresa era stata seguita con trepidazione dagli irredentisti ticinesi, i quali avevano inviato al Vate un messaggio grondante ammirazione e «pathos»: «Da Bellinzona sentinella di italianità un fervido saluto a G. D’Annunzio da un gruppo di giovani ticinesi». D’Annunzio non solo non ignorò l’omaggio, ma rispose ai giovani alimentando la speranza con parole che alludevano a una non remota redenzione: «Il mio pensiero è con voi e con la vostra Terra… le vostre più belle albe non sono ancora nate». Nel contempo prendevano piede anche a Mendrisio e Lugano i primi fasci di combattimento esteri, intenti ad inscenare provocazioni e tafferugli; anche il primo discorso che Mussolini tenne alla Camera nelle vesti di deputato il 21 giugno del 1921 suscitò allarme in tutta la Confederazione: soprattutto il passaggio in cui il futuro Duce rammentava che il confine naturale e sicuro dell’Italia era da collocarsi al Gottardo.
Per il resto era opinione diffusa che l’Italia avesse bisogno di una guida ferma e inflessibile che finalmente rimettesse in carreggiata il Paese, dopo un periodo turbolento segnato da scioperi, occupazioni di fabbriche, assalti a tipografie e camere del lavoro, scontri di piazza e uccisione di sindacalisti. Di questo ritrovato sollievo si fece interprete il «Corriere del Ticino» nell’edizione dell’8 novembre del 1922: «(...) non si può mancare di rilevare da questo giornale il tono delle cortesie scambiate tra l’on. Mussolini e l’on. Motta. Lo stesso comunicato del Dipartimento politico federale dava al fatto grande rilievo; ed è bene sperabile che lo stesso valga a togliere, finalmente, ogni ombra recente o lontana nei rapporti tra la Svizzera e l’Italia. Abbiamo ferma e sincera fiducia che, dagli ultimi avvenimenti, stia per prendere vita, ai confini meridionali, uno Stato le cui assicurate fortune nell’unità e nel fermo ordine raggiunti, saranno pegno di sicurezza e di utili rapporti con la Confederazione». L’ex socialista romagnolo aveva insomma saputo ricondurre il Regno sui binari dell’ordine e dell’autorità; il fatto che tutto questo fosse avvenuto in un clima pregno di violenze e ricatti non sembrava turbare più di tanto gli ambienti moderati. Quel che importava era ristabilire buone relazioni senza dar fiato a ulteriori rivendicazioni di stampo irredentistico. Con il fascismo tuttavia i conti rimarranno aperti a lungo, almeno fino al 1943; nel corso del «Ventennio nero» il pendolo oscillò costantemente tra simpatie e antipatie, indulgenze e condanne, attraversando e spaccando sia i partiti, sia l’opinione pubblica cantonale.