«Carta, penna e calamaio»: tre parole, che sembravano definire relitti d’epoca, sono state, invece, riproposte in veste nuova, in un recente convegno, a Milano, dove, appunto, ci si chiedeva: «La scrittura a mano ha un futuro?» Ma, va subito precisato, non si affrontava soltanto il tema del recupero di una forma espressiva, qual è diventata oggi la calligrafia, destinata ai cultori di un’arte, giustamente riscoperta. Com’è avvenuto, anche in Ticino, dove Orio Galli ha saputo risvegliare l’attenzione e la sensibilità per un linguaggio misconosciuto: quello di segni che non sono semplici abcd, ma, nella loro diversità, recano le impronte delle tante civiltà confluite nella storia. Ed è così che la calligrafia si è conquistata uno spazio fra gli hobby, praticati a volte con risultati inattesi sul piano creativo. È il caso, sempre rimanendo in Ticino, di Enzo Pelli.
Ma c’è dell’altro. La calligrafia non esaurisce il suo ruolo, nell’ambito estetico, perché è bella, originale, misteriosa, collegata a un passato da rimpiangere. Dal dibattito, che a Milano aveva mobilitato anche insegnanti, educatori, psicologi, è emersa una ben diversa funzione della scrittura a mano: come strumento in grado di rimediare alle conseguenze degli eccessi dell’era digitale: di cui sono vittime i giovanissimi.
Gli esempi sono ormai sotto gli occhi di tutti. Sta crescendo una generazione che, certo, le dita le sa usare: pigiando, compulsivamente, su tastiere d’ogni tipo, e rivelando un’abilità, a prima vista invidiabile. In realtà, questo gesto veloce, simile a un automatismo, ha sostituito quello calligrafico, frutto della relazione fra mente e scrittura a mano, e quindi più lento e meditato. Ciò che mette in pericolo una pratica fondamentale nello sviluppo infantile: nelle precedenti generazioni il bambino cresceva di pari passi con il suo vocabolario, espresso in lettere dell’alfabeto, nel rispetto di regole dell’ortografia e della logica necessaria per costruire un testo.
Ora, un percorso, considerato naturale e insostituibile, è stato buttato all’aria dall’avvento di congegni, cosiddetti smart, cioè intelligenti, che, in realtà, l’intelligenza degli utenti la mortificano. E, a questa minaccia, si reagisce cedendo. In Finlandia, come riferiva il Domenicale del «Sole 24 ore», nelle classi elementari «l’insegnamento del corsivo non è più d’obbligo, si userà soltanto lo stampatello». Il fenomeno è generale. Anche nelle nostre scuole medie, ci si arrende, disarmati, all’evidenza. Vi arrivano allievi del tutto sprovveduti, davanti a una pagina bianca: una mano incerata vi lascia i segni di una grafia pasticciata, che si muove su uno spazio disorganizzato, con titoli, spaziature, margini allo sbando. Indizi da prendere sul serio: al convegno di Milano, si è giunti alla conclusione che l’educazione al bello dovrebbe cominciare proprio qui: sui banchi di scuola, ripristinando la lezione di calligrafia. Di cui, va detto, le vecchie generazioni non serbano il migliore dei ricordi: pennini spuntati, schizzi d’inchiostro, pagine imbrattate sotto lo sguardo inesorabile dei maestri di un tempo. Spauracchi spazzati via dai cambiamenti didattici e sociali.
Con ciò, la scuola è sempre chiamata in causa, come responsabile di ogni sorta di disagi e inconvenienti a cui, però, dovrà rimediare. Da qui gli svariatissimi interventi che le vengono assegnati: educazione in materia di traffico stradale, di alimentazione corretta, di affettività, di relazioni multietniche e via dicendo. Ultima, ma non nuova, la richiesta, da parte di un deputato leghista, d’introdurre lezioni di dialetto. Infatti, ogni tanto, ricompare, riproponendo un tema dai risvolti patetici quanto irrealistici. Certo si giustifica il rimpianto per un linguaggio, che nasce proprio dalla spontaneità, e che, quindi, non si apprende sui libri, ma attraverso i contatti quotidiani. Dove, però, è percettibilmente, in via d’estinzione. Almeno a Lugano. Un tempo poteva svolgere un ruolo salvifico: ci si rivolgeva in dialetto al poliziotto, cercando di ottenerne il condono della multa, in nome della comune ticinesità. Oggi, non funziona più. Gli agenti, spesso, non ti capiscono.