La Transilvania sassone è uno di quei luoghi, sempre più rari, dove non ci si stancherebbe mai di ritornare. Lungo la via incantata è il titolo di un libro cult dell’inglese William Blacker, folgorato all’inizio degli anni Novanta da una Transilvania ancora sospesa tra la fine dell’era Ceausescu e una globalizzazione prossima ventura.
Ancora oggi in uno zigzagare svagato di colline un immaginario collettivo dark di tenebrosi castelli, pipistrelli e vampiri esangui evapora nella dolcezza di paesaggi punteggiati da campanili gotici che emergono da grappoli di tetti rossi. Oltre centocinquanta chiese fortificate, delle circa trecento costruite tra il tredicesimo e il sedicesimo secolo, raccontano l’epopea quasi sconosciuta di un Far East medioevale popolato da contadini-soldati chiamati dai re d’Ungheria per difendere i confini orientali del loro regno dalle invasioni di tartari e ottomani, regolari come il succedersi delle stagioni. E così molte famiglie della Renania e della Mosella avevano caricato le loro poche cose sui carri per venire a giocarsi un futuro diverso su questa frontiera turbolenta.
Oltre nove secoli dopo, con la caduta di Ceausescu, quasi tutti i loro discendenti sono tornati nella patria di origine, la Germania, ma nel cuore dei Siebenburger, «le Sette Città fortificate», è sopravvissuto un patrimonio straordinario che molti temevano perso per sempre quando i sassoni sono stati sostituiti da una popolazione prevalentemente romena e rom priva di radici e memoria di questo passato. Invece, per una volta, è successo un piccolo miracolo, decine di villaggi con oltre un migliaio di progetti di restauro, quattrocento artigiani che hanno recuperato mestieri perduti, più di ottanta guest houses per un turismo sostenibile diffuso.
Il vero motore però è l’orgoglio dei nuovi abitanti per un’eredità culturale che non è loro, ma che resterà per le future generazioni, «se vogliamo salvare gli edifici dobbiamo riportarvi la vita perché un monumento vuoto non sopravvive». Ne ha fatta di strada Carolina Fernolend che ai tempi di Ceausescu sognava di andare a vivere in Germania, una dei ventisette sassoni rimasti nel villaggio di Viscri.
Due file di case color pastello, un silenzio rotto solo dallo starnazzare di oche indignate per il cigolio di carri ancora trainati da cavalli, e un centro di gravità annidato nel cuore di un piccolo bosco, la Deutschweisskirch, la «Chiesa bianca tedesca» che ha dato persino il nome al villaggio. Un luogo sospeso nel tempo che in una sera d’estate si popola di famiglie; con una mano tengono i bambini con l’altra le scarpe della festa da indossare prima di entrare e ascoltare la musica di Bach che scivola tra i banchi di legno illuminati solo dalla luce struggente di un candeliere.
«Se ci penso forse tutto è iniziato quando, da bambina, chiedevo a mia nonna come fosse possibile che in un paesino così piccolo si fosse costruita una chiesa simile. Lei mi aveva spiegato che prima di sposarsi le coppie dovevano portare un carretto di pietre, è così che hanno costruito le chiese fortificate, era il modo di pagare il prete» ricorda Carolina. «Quando il regime è crollato, in tre mesi la maggioranza dei nostri vicini è emigrata in Germania, così ho pensato che salvare questo patrimonio creato con enormi sforzi fosse un dovere verso le generazioni future». A dirla così sembra semplice, ma anche solo per provarci ci voleva un’ottimista inguaribile come lei.
«Nel 1993 ho incontrato una signora inglese, Jessica Douglas-Home, che mi ha promesso di portare in Transilvania il principe Carlo. Io non ci credevo ma cinque anni dopo me lo sono trovato davanti e gli ho raccontato che Ceausescu voleva distruggere oltre ottocento villaggi tra cui il mio, ma dodici anni dopo, nel 1999, Viscri era diventato un Sito Unesco. Alla fine il principe ha accettato di diventare il nostro testimonial». Da allora Carolina è vicepresidente del Mihai Eminescu Trust fondato nel 1987 in Gran Bretagna per salvaguardare il retaggio culturale sassone e Carlo, che ama ricordare di avere sangue transilvano grazie a una bisnonna, ha addirittura comprato una casa e aperto una piccola guest-house a Viscri, proclamata dal «Guardian» una delle più belle destinazioni della Romania.
«Siamo partiti da interventi apparentemente piccoli come rifare le facciate perché i nuovi proprietari diventassero orgogliosi delle loro case ma dobbiamo creare un’economia sostenibile – dice Carolina – perché non vogliamo che il turismo ci detti un modello di sviluppo».
Alla fine di una lunga strada sterrata un filo di fumo porta all’ultimo carbonaio del villaggio di Alma Vii. Zoltan ha deciso di non emigrare continuando un mestiere antico e passa le sue giornate in una radura perché «il legno è come gli uomini, non sai mai come si comporterà e bisogna controllarlo ventiquattro ore al giorno». A Mălâncrav il MET ha restaurato gli affreschi gotici più belli della Transilvania, ma ogni chiesa fortificata ha un’anima diversa. A Richiş un coniglio saltella indisturbato davanti a un portale, prima di scappare nell’erba mentre una ragazzina mi apre una chiesa contadina piena di vecchie bibbie, capitelli scolpiti, e silenzi. A Moşna l’intimità del mare di lenzuola davanti alla casa del custode contrasta con le mura di un bianco quasi accecante dei villaggi fortificati di Prejimer e Harman che nascondono alveari di camere dove la popolazione cercava rifugio durante gli assedi.
Una corona di torri appuntite annuncia una Camelot sassone, la chiesa di Biertan Patrimonio dell’Umanità Unesco e roccaforte di austeri vescovi luterani che dai loro sarcofagi di pietra guardano accigliati i visitatori. Tra le navate gotiche stendardi feriti dal tempo raccontano l’orgoglio di corporazioni che custodivano i loro tesori in una sagrestia protetta da un chiavistello così complicato da vincere il primo premio all’Esposizione Universale di Parigi del 1900. Nella vicina Torre della Prigione invece le coppie che volevano divorziare venivano rinchiuse per due settimane, con un letto e un coltello per facilitare la scelta, con successo perché risulta un solo divorzio in tre secoli.
Per secoli l’epicentro di questo mondo è stato Schassburg, la cittadella di Sighisoara dove – non lontano dalla casa natale di Vlad Tepes, principe di Valacchia, impalatore seriale e ispiratore del Dracula letterario – in una birreria un’attempata cantante intona con un filo di voce «Je ne regrette rien» («Non rimpiango nulla»), come le chiese sassoni sopravvissute ai tartari e a Ceausescu. Per dare un’altra opportunità a nove secoli di storia.