«La pesca è la vita come dovrebbe essere: un universo in cui l’esperienza conta più della tecnologia». Più grande di noi – Confessioni di un pescatore a mosca di Raul Montanari è uscito qualche mese fa nella nuova collana Pennisole a cura di Dario Voltolini, per la Hopeful Monster di Torino. Editore che un po’ ha che fare con la Svizzera, essendo diretto da Beatrice Merz, che pure presiede la Fondazione intitolata a suo padre, l’artista d’origine elvetica Mario Merz (1925-2003), del quale porta la firma L’uovo filosofico installato nel 1992 alla stazione di Zurigo.
Ma torniamo al bel libro autobiografico di Montanari: «Il lago è più grande di te, è più grande di noi. È più forte di noi», scrive l’autore, aggiungendo però che è il fiume «la vera palestra del pescatore d’acqua dolce»: «C’è un consenso generale sul fatto che la pesca in acqua corrente sia la più affascinante, oltre che la più difficile. […] E poi scoprii che la corrente ha qualcosa di misterioso. Nasconde il pesce al pescatore e il pescatore al pesce», scorrere d’acqua che l’autore definisce una vera e propria quarta dimensione, dopo lunghezza, larghezza e profondità: «Un metro quadrato d’acqua corrente era capace di riprodurre e anzi moltiplicare gli enigmi che si nascondevano in cento metri quadrati di acqua ferma».
Bergamasco d’origine, Montanari ricorda come da ragazzo prese ad appassionarsi a questo sport che iniziò a praticare sulle sponde del Sebino, il lago d’Iseo, che lui definisce nel libro «grembo di acqua scura, imperscrutabile».
Il lettore viene così introdotto all’arte alieutica attraverso la descrizione di telai, lenze di nylon, piombi e galleggianti di sughero in aggiunta alla prima cannetta di bambù, divenuti poi ben altro, e infine si parlerà anche di esche, dalle larvette ai pesci finti in balsa provenienti dalla Finlandia, per arrivare alle mosche che non sono quelle che per prime ci vengono in mente: «Con questo termine generico (traduzione dell’inglese fly) si indicano alcune grandi famiglie di insetti che hanno la caratteristica di deporre le uova sul fondo di fiumi, laghi e torrenti: effimere, fringanee, plecotteri».
E se da una parte affascina la pesca a fondo notturna alle anguille, per diventare un buon moscaiolo occorre umiltà, spirito d’osservazione e competenze entomologhe tali da «instillare nel pescatore una mentalità ecologica».
Di fatto: «La pesca a mosca sta alla pesca in generale come gli scacchi stanno agli altri giochi da tavolo: è l’unica ad avere una cultura», con tanto di tradizioni, scuole, feroci polemiche tra i puristi della mosca secca e quelli che ammettono l’uso di esche come la sommersa e la ninfa.
Tra materiche descrizioni ambientali, emerge anche l’amore che il pescatore Montanari ha per i pesci stessi: scardole, «squadriglie di persici, cavedani in formazioni più sciolte, lucci solitari, trote enormi e favolose» a caccia delle alborelle che formano «vasti banchi stratificati che si estendono fino a varie decine di metri dalla sponda», e ancora le tinche, «preda all’apice dei miei desideri, pesce pigro nell’abboccare, robusto nel combattimento».
Tra le catture più difficili, resta comunque il cavedano che, secondo Montanari, è il pesce a noi più affine: astuto, è «il pesce d’acqua dolce più simile all’uomo per intelligenza! Adattabile, versatile, onnivoro, predatore all’occasione, opportunista sempre, capace di ingoiare e metabolizzare anche il guano lasciato cadere in acqua da svassi e gabbiani, frequentatore impudente dello scarico della macelleria e della fogna, onnipresente in ogni tipo di acqua: torbida, cristallina, stagnante, corrente, densa di alghe ed erbe o sgombra e pulita, dal fondo fangoso o ciottoloso, sabbioso o cosparso da rocce. Abitatore sornione dell’imbarcadero e del lungolago dove il cibo viene soprattutto dall’uomo e lui dell’uomo mica ha paura: si scosta di un metro o due ma rimane nei paraggi perché sa che da quelle sagome alte affacciate dietro le ringhiere spesso arriva cibo. Non come la trota che appena ti vede fila via a nascondersi sotto un sasso. Ma il cavedano è anche il gran signore dell’acqua aperta, maestro della navigazione pelagica. Gregario in giovane età, sempre più solitario man mano che gli anni avanzano e capisce che dagli altri possono arrivare solo tradimenti. Uguale a noi, giuro. Identico».
Non è l’unica personificazione che viene agita all’interno di questo bel libro, dove la natura si fa umana e l’umano si fa animale. Se il lago è infatti l’equivalente del liquido amniotico, la culla materna, il fiume è di fatto il «liquido seminale, l’urgenza, la pulsione che cerca sfogo». Così il fiume diventa anche «luogo in cui si potrebbe morire presi a tradimento da una natura ancora forte e insidiosa – non spegnersi nell’orrore delle lenzuola bianche e dell’odore di disinfettante ma annegare nella corrente, sprofondare nel fango. Cadere in uno strapiombo. Essere punti, morsi, sbranati come bestie da altre bestie».
Questo memoir ha insomma quattro livelli di lettura, come li ha la pesca nei fiumi: la realtà-terrena (lunghezza); la realtà-acquatica (profondità), il sogno (ampiezza, delle immaginazioni); l’inconscio (la corrente), che più di tutti crea mistero.
Nel capitolo dedicato alla cattura (il nono, dei 14 elencati nel sommario) prende avvio infatti un approfondimento che va oltre la messa alla prova delle tecniche, e che ha che fare con una riflessione più ampia sui motivi per cui l’autore è animato da questa passione. Termine, ci verrebbe da dire, non usato a caso, se prendiamo in considerazione il suo significato più biblico che racchiude in sé una sofferenza, quella che porta alla crocifissione e quel che ne segue, dove la resurrezione pare equivalere alla rimessa in libertà del pesce che torna alla vita. Vita che il pescatore sente agitarsi tra le mani: «Questa creatura che pare fatta d’acqua… acqua che si è fatta muscoli, nervi, fauci e pinne e volontà di sopravvivere. Voglio riempirmi gli occhi di questa vita, almeno per qualche istante, e poi restituirla al suo mistero».
In Svizzera e in Germania tale pratica sportiva, detta catch & release, che prevede il rilascio della preda viva dopo la cattura, è proibita perché si ritiene che o si pesca per procurarci cibo, oppure «è immorale che la specie vincente (siamo sempre noi) si diverta ai danni di specie inferiori».
Non si sottrae tuttavia, Montanari, alla sua responsabilità di uomo in rapporto alle forze della natura: «L’uomo non è solo la specie vincente, è un predatore-parassita ingombrante, invasivo, che ha inflitto alla Terra ferite di ogni tipo. Siamo riusciti ad avvelenare aria, acqua e suolo, a modificare il clima, a sconvolgere le stagioni. L’uomo sta nel mondo in modo violento». Si interroga, rispondendosi come può: «Non uccido il pesce, lo libero. Compio un atto di solidarietà fra esseri viventi, di armonia creaturale». Dopo i primissimi anni di pratica, infatti, la svolta: non mangiandoli più tutti, l’autore decise di iniziare a liberarli, per guardarli guizzare via: «Io vado a pesca per catturare i pesci. Non per ucciderli o mangiarli, perché ormai da trent’anni li libero con tutta la gentilezza possibile affinché a loro, dell’incontro con me, non rimanga nemmeno il ricordo».
E si torna così al senso dell’acqua che sta all’origine della vita, al liquido amniotico, al distacco dalla madre, dove la pesca con il rilascio sembra suggerire un parallelismo con la messa al mondo, o la rimessa al mondo: come se la lenza fosse il cordone ombelicale e, tagliato questo, il pesce rigettato in acqua facesse l’esperienza di una forma di rinascita. Come Dio, in questo mondo al rovescio, anche il pescatore ridona la vita al pesce in un atto di amore.
Montanari si definisce, guarda caso, pescatore innamorato, sebbene abbia un solo modo per amare queste creature: «È questa la maledizione dell’uomo: il suo amore per creature diverse da lui arriva sempre accompagnato da un pizzico di prepotenza – capita a chi mette morso e redini al cavallo che pure adora, a chi mette il guinzaglio al cane che considera il suo compagno e amico fedele. E il mio amore per i pesci si può esprimere nella sua massima intensità solo così. Voglio catturarli». Si pacifica, infine, sicuro di far parte lui stesso dell’ecosistema; non per nulla i pescatori sono spesso definiti «sentinelle dei fiumi»: grazie alle loro profonde conoscenze, grazie alle loro denunce di discariche abusive, dell’uso di pesticidi nelle coltivazioni, e di altri abusi, che determinano intorpidimenti dell’acqua fino alla scomparsa di una specie o di un’altra, i fiumi restano in salute: «Il pescatore è la tassa che il fiume paga per essere difeso».