Dopo aver letto Mare e Sardegna, sbarco a Cagliari sulle tracce di David Herbert Lawrence. Libro alla mano, voglio assaporate quello che è rimasto delle ferrovie sulle quali viaggiò il grande scrittore inglese quasi cent’anni fa, nel 1921.
Partenza di sabato mattina all’alba, nella città deserta: incontro solo una guardia e due anziani turisti. La moderna metropolitana di superficie mi lascia dopo pochi minuti alla fermata di San Gottardo, vicina all’antica stazione ferroviaria di Monserrato, tutt’oggi sede di un grande deposito ferroviario, praticamente un museo a cielo aperto. Va in scena un’aurora poetica e commovente mentre prendo posto sull’attempata automotrice Diesel/Elettrica ADe serie 90, che rumorosamente scalpita sul binario a scartamento ridotto posato nel lontano 1893.
Qui comincia il mio viaggio sulla linea San Gottardo-Isili, alla scoperta di quella che Lawrence chiamava «la strana magia della Sardegna». Dal finestrino lo sguardo esplora una sterminata pianura coltivata a cereali che, dopo la trebbiatura, giace riarsa dal sole. Sullo sfondo riconosco le «catene di colline simili alla brughiera, irrilevanti, che corrono via, forse verso un gruppetto di cime drammatiche a sud-ovest».
Uliveti, canneti, pinete e vigneti a perdita d’occhio assediano anche le piccole stazioni, malconce ma presidiate dal personale ferroviario in divisa d’ordinanza. Pancia a terra, il treno striscia lentamente col passo del giaguaro, fischiando di continuo per annunciare il suo passaggio. I due turisti del mattino mi hanno seguito sin qui; scopro che sono svizzero tedeschi, anche loro turisti ferroviari rapiti dalla bellezza del paesaggio, come davanti a un’opera d’arte. Lui, alto e segaligno, indossa un’elegante camicia da esploratore che un po’ gli invidio; lei, taciturna, annuisce ad ogni nostra frase. Questa tratta è ancora in uso e siamo tutti felici di aver scoperto che per fare un giro in questo paradiso terrestre basta un biglietto di pochi euro.
Una leggera foschia si leva dal terreno: stazzi con capre al pascolo e irrigazione a goccia tra i filari dai quali penzolano copiosi grappoli d’uva in attesa della vendemmia. Alla stazione di Donori il Baedeker (ndr: guida turistica cartacea) dei miei nuovi amici svizzeri ci spiega che stiamo attraversando la fertile regione storica del Campidano di Cagliari. Enormi piante di fichi d’india selvatici insidiano la scarpata ferroviaria contendendo lo spazio vitale al binario. Foreste di eucalipti annunciano la presenza di acqua nel sottosuolo. Dopo quaranta chilometri dalla partenza entriamo nella stazione di Senorbì, principale centro della Trexenta, altra regione storica di questo «continente» chiamato Sardegna.
Alle 8.24 il treno arriva a Mandas. Quasi due ore per coprire poco più di sessanta chilometri: questa è una di quelle ferrovie dove la velocità commerciale è inversamente proporzionale all’emozione del viaggio. Ai tempi di Lawrence il servizio ordinario continuava sino ad Arbatax. Ma ora mancano i fondi (e la voglia?) per ammodernare queste vecchissime linee ferroviarie, tenuto conto dell’orografia del territorio, della scarsissima densità di abitanti della regione e del costo infinitamente minore del trasporto su gomma.
La linea ferroviaria è stata però recuperata in chiave turistica e così in alcuni giorni è ancora possibile salire sul «Trenino verde» per Arbatax; con i suoi 159 chilometri è la ferrovia turistica più lunga d’Italia. I macchinisti in servizio non si contano così come le targhe a ricordo del passaggio, il 6 gennaio del 1921, dello scrittore inglese che paragonò Mandas «alla Cornovaglia nelle sue parti più brulle o agli altipiani del Derbyshire».
In compagnia dei coniugi elvetici esploro la stazione posta sul confine tra servizio pubblico e archeologia industriale. Tutto è originale: un vetusto banco di manovra a catena governa gli snodi ferroviari così come i macaco (deviatori) servono ancora per azionare a mano gli scambi. La «ritirata» è fuori uso. Intorno solo carcasse di locomotive a vapore mangiate dalla ruggine e vecchi vagoni sconquassati che giacciono accoccolati sui binari morti... Sono dentro un film di Sergio Leone.
Il «Trenino verde» è una vecchia automotrice del primo dopoguerra perfettamente restaurata. Niente concessioni alle lusinghe della modernità, dunque niente aria condizionata; ma non importa, viaggiamo bellamente con i finestrini abbassati dai quali entrano forti rumori metallici, stridenti suoni fuori sincrono sepolti nel DNA di ogni viaggiatore. Il binario inizia subito ad arrancare aggrappato al sedime attraversando una natura ostile, vinta solo a suon di dinamite, pala e piccone. Il treno serpeggia, sbuffa, soffia, fischia e barcolla. Alla velocità massima di 30 km/h, gira e rigira tra colline boscose, cercando la via per Orroli, Arrubbiu, Nurri, stazioni fantasma che rivivono solo nei giorni in cui passa il trenino della nostalgia. Molto più a valle vedo il lago del Flumentosa solcato da un battello. Siamo nelle vicinanza del Nuraghe Arrubiu, alle spalle il Sarcidano e davanti alla Barbagia di Seulo. «Era meraviglioso correre nel luminoso mattino verso il cuore della Sardegna», scrisse Lawrence passando di qui.
Una sosta alla casa cantoniera di Palamara, raggiungibile solo con la ferrovia, e poi giungiamo al cospetto del Monte Santa Maria, estrema propaggine meridionale del Gennargentu. Sull’altopiano di Sadali la vegetazione si fa più rada. Sono passate quasi tre ore da quando abbiamo lasciato Mandas. Poi alla stazione di Seui il treno si ferma. La linea è interrotta, per oscure ragioni burocratiche, mi pare di capire. A differenza di Lawrence, non arriverò sino ad Arbatax. Ma sono stanco e accolgo la notizia come un’amnistia. È l’ora di pranzo e di Seui so solo che qui fanno i migliori culurgiones dell’isola. I miei compagni svizzeri, ormai inseparabili, non conoscono i famosi ravioli ripieni ma si uniscono a me fiduciosi…