«On aimerait tous avoir le temps. Mais qu’est-ce que le temps quand on n’en a pas» («Tutti vorremmo avere tempo. Ma cos’è il tempo quando non ce l’hai?»). Capita a chiunque, penso, di ritrovarsi con la mente assorbita da una canzone, che lo condanna a rimuginarne ritmo e parole per l’intera giornata.
Guarda caso, a frullare per la mia testa oggi sono le note melodiose di Le temps, del duo francese Vitaa & Slimane. Il brano parla dello scorrere inesorabile del tempo e della consapevolezza di non averne mai abbastanza per coltivare passioni e affetti e per mettere seriamente in discussione il rapporto con la vita, la nostra e quella di chi ci è vicino.
Mi domando il perché di quest’appropriazione indebita e musicale delle mie funzioni celebrali. Sarà colpa dell’età, degli anni risucchiati da un vortice spietato che non concede respiro. A volte mi chiedo, quanti me ne rimangono ancora, di anni? Una ventina, con un po’ di fortuna? Pochini…! Poi però, se riavvolgo il filo e penso ai venti che ho appena archiviato, mi rendo conto con sollievo di averli riempiti e spesi bene. Le cose che ho fatto e amato, i viaggi, i posti che ho visto, gli incontri, le persone conosciute. Loro sì che, magari, se ne sono già andate. Tante. Non per altro, ma quel mio voler frugare nella storia e nelle storie del passato, fa sì che i testimoni siano per lo più augusti vegliardi carichi di rughe e di ricordi. E ormai ne rimangono pochi.
Me ne rammento qualcuno, mentre m’incammino fiutando l’aria, che sa di terra secca, sul sentiero che da Corticiasca porta al Monte Bar, in Valcolla.
Uno di questi è l’amico Vincenzo Vicari. Mi pare ancora di vederlo, con la sua elegante giacchetta screziata e la cravatta bordeaux (l’avevamo portato su in macchina fino alla vecchia capanna), che allunga il braccio, mi mostra i Denti della Vecchia, lì di fronte, e mi racconta di quando, giovane fotografo alle dipendenze della ditta locarnese Steinemann, gli dicono di andare a filmare l’alpinista Emilio Comici che scala quei pinnacoli di roccia calcarea.
«Pensa un po’ – mi fa – mi hanno messo in braccio un’enorme cinepresa a manovella e una pellicola da trentacinque millimetri e mi hanno detto, va’. E sono andato. Con quel cassone pesante. Ero giovane, allora, era il trentasei, però non ti dico che fatica trascinarlo fin lassù». E così, eccolo lì il Comici, in biancoenero, appeso come un ragno alla parete verticale in cerca di appigli, mentre in alto le guglie biancastre dei Denti trattengono brandelli di nebbia. (Per visionare il filmato: https://bit.ly/3yIo6Gl)
A un certo punto, mentre facciamo quattro passi nei paraggi della capanna, Vincenzo leva di tasca una minuscola macchina fotografica e incomincia a scattare. Qualche giorno dopo mi spedisce a casa un paio di foto. È una luce incredibile, quella che ha catturato, e ti pare impossibile che l’abbia fatto con quell’apparecchietto, che sembrava un giocattolo. Ma d’altronde lui è stato un mago della luce. Ci parlava, la capiva, sapeva penetrare quello che il grande pioniere della fotografia, Nadar, chiamava il «sentimento della luce», la cui comprensione era la conditio sine qua non per essere un buon fotografo.
Sopra El Mont Casòn, il sentiero risale un bel bosco di latifoglie, con maestosi faggi, robuste betulle e altri alberi, giovani e vecchi, cresciuti a caso in mezzo ai macigni di una frana primordiale. Poco più su contenderanno il pendio alle conifere ordinate e impettite come soldatini. Un cartello a freccia indica il Sentiero piantagioni, un comodo tracciato, che dobbiamo al Consorzio forestale Valle del Cassarate e golfo di Lugano. Procede su un terreno soffice, attraversando folte abetaie e ariosi boschi di betulle, prima di sbucare nei pascoli alti, gialli di erbe pettinate dal vento. Al Consorzio serve per il controllo delle piantagioni ed è un peccato che non sia segnalato sulle carte di Swisstopo, per un banale rimpallo di responsabilità nella sua manutenzione.
A chi scrive è concesso lo straordinario privilegio di passeggiare anche nel tempo, diceva giustamente Antonio Tabucchi. E così rivado con il pensiero alla mia prima volta sul Monte Bar.
Era una notte d’inizio gennaio di una trentina d’anni fa. Una notte di luna piena, con un baluginare di cristalli argentei, lo scricchiolare di scarponi sulla neve ghiacciata e un freddo aguzzo, che percepivi sulla pelle anche sotto spessi strati di pile e goretex.
Arrivati in vetta, rivolgendo lo sguardo verso il basso, la terra inghiottita dal buio sembrava animata da mille occhi ammiccanti, come quelli di un branco sterminato di lupi, le luci di Lugano e dei paesi tutt’attorno. Di che saziarsi di meraviglia.
Il giorno seguente avevo incontrato uno degli ultimi «sherpa del Bar», che trasportavano gli sci ai signori luganesi, quando quella montagna era la loro stazione invernale: Osvaldo Fontana.
È la montagna del vento, questa. Lo dico per esperienza. Non c’è stata volta in cui, uscendo dal bosco e salendo verso la nuova capanna del CAS e la cima erbosa, non sia stato investito da un susseguirsi di raffiche fredde e rabbiose. Oggi però il vento del nord è piuttosto clemente, crea poco scompiglio, regalandomi per contro vividi colori e un’aria trasparente.
Qua e là, il bianco di radi ritagli di neve vecchia interrompe l’uniformità dei pascoli, oltre i quali lo sguardo è risucchiato da un paesaggio mozzafiato, con un luccicare di laghi, i blu sfumati delle montagne prealpine, città e paesi avvolti in una cappa di profondo silenzio e in lontananza, a oriente e occidente, catene di alte montagne innevate, su cui svetta il Monte Rosa.
La capanna oggi è chiusa (da novembre, fino al 30 aprile la capanna è in gestione invernale ed è aperta solo dal venerdì a mezzogiorno alla domenica) e mi metto lì fuori seduto su una panca a scaldarmi al sole, sgranocchiando un panino. A dire il vero, si sta così bene che mi è passata la voglia di proseguire verso la cima, sapendo di perdermi solo ciò che già conosco… o quasi. Mi riprometto di ritornarci. E farò come mi è stato suggerito. Seguirò il crinale verso est e poco prima della Cima di Moncucco, scenderò sul versante opposto, all’Alpe Matro, per ritrovarmi immerso in un mondo completamente diverso, prettamente alpino, dove domina il pino mugo e l’autunno risuona del bramito dei cervi, che si saziano assieme ai guardinghi camosci di un’erba tenera e succosa cosparsa di un arcobaleno di fiori.
Storie di ieri
Anni 30 ◆ L’ultimo sherpa del Bar e l’americano
«Si saliva di qui», mi aveva detto Osvaldo Fontana, l’ultimo sherpa del Bar, indicando la lunga via Crucis che porta all’oratorio della Maestà di Bidogno. «La domenica arrivava in piazza l’autopostale, con dietro un cassone pieno di sci. Noi aspettavamo che, scaricati, li mettevano in piedi contro il muro. Ne prendevamo quattro paia a testa e li legavamo con un cordino per portarli meglio. A volte la neve arrivava al ginocchio e si faceva una fatica terribile a stare in piedi, specialmente su nel ripido Böcc da l’Asan. Settantacinque centesimi al paio, era la tariffa – spiegava l’Osvaldo – qualcuno però ci dava magari un franco o perfino due, quando ci vedeva sudati e affaticati. Andavamo su in un paio d’ore, poi si scendeva per arrivare a casa sul mezzogiorno per il pranzo, contenti di aver preso tre o quattro franchi».
Era soprattutto un lavoro da donne, quello dello sherpa. Donne forti, abituate da generazioni a portar pesi su per i monti e gli alpi, con atavica rassegnazione, come se quel compito ingrato fosse stato impresso da tempo immemore nel loro DNA. Per cui non potevano farci niente. Si caricavano gli sci di traverso sul cargàisc, la gerla per il fieno, e s’arrampicavano nella neve coi vestiti di tutti i giorni, una dietro l’altra, come condannati, come sul Golgota quel Cristo che sentivano così vicino. Non serve immaginarle. Ci sono le foto. A Vicari (sempre lui) non poteva sfuggire quel loro penare sulla montagna (https://bit.ly/3YTZDZo).
In quegli anni, le portatrici di sci si erano prestate anche al trasporto dei materiali per la costruzione della capanna, la prima, inaugurata il 6 dicembre 1936, con duecento persone in piedi ad applaudire incuranti del tempo da lupi, come annotava nel suo diario l’ingegnere Luigi Brusa, grande frequentatore delle nostre alpi e uno dei primi sciatori in Ticino.
Riccardo Camozzi, invece, non li avrebbe messi mai gli sci ai piedi. A 17 anni è partito per l’America a fare il cameriere. Era il 1925 e sul Monte Bar, l’inverno, non c’era ancora la ressa dei signori luganesi, con i loro maglioni di gabardine e i pantaloni in tweed. Riccardo è un altro di quegli augusti vegliardi, che ho avuto la fortuna di conoscere ma non il tempo per trarne maggior nutrimento e beneficio.
Doveva essere la metà degli anni Novanta e lui abitava, con la moglie, qui sotto in uno dei paesi della Valcolla. Ne ho un’immagine sfumata, come persona, mi ricordo solo del suo strascicare i piedi nelle pantofole e della sua memoria straordinaria, che allora aveva liberato in un lungo racconto.
L’aveva attraversato da solo, l’Atlantico, Riccardo, a bordo dell’Aquitania, e a New York c’era lo zio ad aspettarlo. «Mi ha portato a Chicago, al Drake Hotel, dove lavorava lui e lì ho incominciato a fare l’aiutante cameriere. Era un grande albergo, con ottocento camere, you know, e ci venivano i ricchi, gli attori, i politici e anche Al Capone, che ha fatto del gran bene alla povera gente».
Nel 1929, quando la grande depressione raggiunge il suo culmine, Riccardo torna in Ticino, si sposa e rimane al paese per un anno e mezzo. Poi riparte per Chicago, dove ritrova il suo lavoro. «Un giorno arriva un “todescòn” e mi chiede: “Dove lavora lei?” Gli dico: “Nella main room, la sala grande”. Era quella dove si servivano il pranzo e la cena. Allora mi fa: “Ti piacerebbe venire nel room service, il servizio in camera?”. “Certo, bisogna vedere se la compagnia mi cambia”. E lui: “Ci penso io!”. Due giorni dopo mi ha preso con sé e subito mi ha messo a capo di quattordici boys».
La giovane sposa, intanto, è rimasta in Valcolla, ma Riccardo torna nel 1937 e la vuole portare in America. «Il console mi dice, guarda, vista la situazione non saprei se veramente ne valga la pena. Così l’è nai tütt a balìn e sono ripartito da solo. Poi è arrivata la guerra. E ci sono stato dentro per cinque anni. Quando i Giapponesi hanno fatto saltare Pearl Harbor, you know, i ha rovinaa sü tütt, e così hanno chiamato anche me, che avevo la doppia nazionalità».
Lo vedevo commosso, Riccardo, mentre raccontava dell’America, della sua vita, della moglie rimasta in patria, della guerra e di lui soldato, una commozione frammista però a orgoglio e compiacimento e a un misurato senso dell’umorismo. Non ricordo di avergli chiesto come si era poi adattato, dopo quarant’anni, a vivere qui nella sua valle, all’ombra del Monte Bar, da dove, tanto tempo dopo, gli rendo omaggio ovunque egli sia.