Quando, alla mattina, ci svegliamo e iniziamo la nostra giornata, stentiamo a ricordarci i sogni che abbiamo fatto la notte. Ne tratteniamo solo brandelli, che poi si sfilacciano, lasciando pallide tracce nella nostra memoria. Ma anche da svegli il sogno continua ad accompagnarci, ad animare i nostri gesti, a nutrire le nostre aspettative, i nostri progetti: come succede a chi ha un «sogno nel cassetto» e si impegna per concretizzarlo. Chi, al contrario, pieno di amarezza e rassegnazione riconosce che in fondo «era solo un sogno» ci riporta alla nostra cultura della prestazione, al fatto che il sogno sovente si oppone al reale. Allora può diventare sinonimo di miraggio, illusione, vana speranza, sforzo ingiustificato. Per fortuna, ci sono esperienze speciali che ci riportano in uno spazio in cui il reale e il possibile tornano a dialogare: come quando si dice che stiamo «sognando ad occhi aperti». Basta poco, a volte: un’impressione, un’immagine, un ricordo, un suono. Ed ecco che, come per gioco, il mondo si tinge di sogno, e il sogno si tinge di mondo.
Se il sogno, nelle sue molteplici manifestazioni, continua ad accompagnarci anche durante la veglia, questo significa che esistono dei ponti che collegano i due mondi, delle soglie e dei punti di accesso che permettono di transitare dall’uno all’altro. In pieno centro a Milano, per esempio, esiste un museo per sognatori: si chiama Museum Of Dreamers. Sembra fatto apposta per chi vuole approfittare del tempo libero per concedersi una sana evasione dalla realtà.
Il nostro tempo libero dovrebbe essere, infatti, un momento in cui poter esplorare i nostri interessi e praticare le attività che più ci appassionano e, perché no, anche un’occasione per realizzare qualche scoperta personale. Oppure semplicemente uno spazio per fantasticare, per lasciare libera la nostra immaginazione, come ci invita a fare per l’appunto il Museum of Dreamers. Basta visitare il sito per scoprire che si tratta di «una mostra dedicata ai sognatori che trasforma l’onirico in realtà, le aspirazioni in ispirazione, gli spazi in piattaforme per sognare». Ma non è tutto: la mostra promette un «percorso emozionale di quindici installazioni immersive che vi invita a realizzare i vostri sogni e inseguire le vostre passioni, uno spazio per condividere i propri desideri e vincere le proprie paure». Tutto lascia presagire un intrigante viaggio nel mondo dei sogni, un invito a capire come il sogno, nelle sue molte sfaccettature, si riverberi sulla nostra vita quotidiana.
L’aggettivo immersivo, che qualifica le quindici installazioni presenti nel museo, è indubbiamente in risonanza con le nuove tendenze dell’arte contemporanea, ed è riconducibile a un duplice intento. Da una parte vi è una volontà di dare spessore alla dimensione immersiva di un’opera o installazione allo scopo di metterla in valore, di renderla manifesta, e di esaltarne le qualità. Dall’altra parte, l’intento è di mettere in luce il valore dell’esperienza immersiva come evento singolare, unico e irripetibile.
Queste coordinate – un tema intrigante come il sogno, e la promessa di un’esperienza immersiva senza paragoni – sollecitano la nostra curiosità: tanto che decidiamo di visitare il museo. Proprio in quei giorni, veniamo a sapere, il museo è passato all’onore della cronaca (o forse sarebbe meglio dire del gossip) in occasione della visita della nota influencer Chiara Ferragni accompagnata dalla famiglia al completo. Al di là del richiamo mediatico dell’influencer e del marito Fedez, la visita ha destato un certo scalpore. Come informa il sito de «il Fatto Quotidiano»: «pare che al loro arrivo sia successo qualcosa che ha infervorato i presenti che avevano appena acquistato il titolo d’accesso. Moltissimi genitori attraverso i social hanno raccontato di essere stati invitati ad allontanarsi dall’ingresso, vedendosi chiudere le porte di accesso al loro arrivo». Per fortuna, ci viene da pensare, noi abbiamo scelto un altro giorno per la visita al museo, e così abbiamo potuto accedervi.
Purtroppo, nonostante le premesse promettenti, a nostro modo di vedere l’esito della visita è ben al di sotto delle aspettative, tanto che non esiteremmo a definire le quindici installazioni terribilmente kitsch: una serie di cliché presentati in modo per nulla credibile in un ambiente pervaso, per di più, di una musica a volume decisamente troppo alto. Un’atmosfera di luccichii patinati fini a sé stessi: nessuna aspirazione, se non quella dei ventilatori, e dell’ispirazione neanche l’ombra.
Rimaniamo perplessi, accorgendoci che non c’è alcuna fantasia né originalità nel tradurre il fascino dell’onirico in qualcosa che possa nobilitare l’immaginazione. Tutto rimane fermo a delle formule sterili, tanta plastica, e a una piattezza che non ha nulla a che vedere con il mistero del sogno. D’accordo, a conti fatti il museo sembra destinato soprattutto ai bambini, che però non hanno vissuto abbastanza, non hanno abbastanza esperienze e sguardo retrospettivo per capire certe sottigliezze che informano la polisemia del sogno.
L’unica soddisfazione che ci togliamo, prima di uscire, è di lasciare un messaggio sul libro dei visitatori. Chissà cosa avrebbe pensato Sigmund Freud del Museum of Dreamers, scriviamo. A dire il vero, non credo proprio che ne sarebbe stato entusiasta.