Operatore: Che cos’è successo?
Robert: Ecco… Io… Lavoro da casa.
Operatore: O.K., c’è qualcun altro con lei?
Robert: No, sono solo.
Operatore: Quand’è stata l’ultima volta che ha parlato con qualcuno?
Robert: Uh, con mia moglie questa mattina, credo.
Operatore: Nessun altro?
Robert: Non so… Beh, il postino, ma da dietro le tende… Va bene lo stesso?
Operatore: No, temo di no. (Pausa) Ora le chiedo di aprire le tende, O.K.? Lasci entrare un po’ di luce…
Il resto potete immaginarlo: nonostante il sole sia alto, Robert è in pigiama, non ha ancora fatto la doccia, ha mangiato in modo compulsivo e disordinato, si è distratto guardando dei video e naturalmente non ha concluso nulla col suo lavoro. Così Colin Nissan, sulle pagine del «New Yorker», ha immaginato una chiamata al numero per le emergenze da parte di un lavoratore a distanza, caduto in confusione.
Soltanto qualche anno fa, quando i progressi tecnologici resero possibile il lavoro a distanza, o telelavoro, l’avvenire appariva luminoso. Ciascuno avrebbe potuto lavorare da casa. Niente più ore perdute nel traffico per andare e tornare dall’ufficio; niente tempi morti, riunioni inutili, conflitti tra colleghi; e anche l’azienda ne avrebbe ricavato beneficio, utilizzando spazi minori e potendo contare al tempo stesso su un personale più soddisfatto e motivato.
Poi, certo, non è andata proprio così. Per cominciare la crescita del lavoro a distanza è stata lenta. Negli Stati Uniti nel 2015 il 24 per cento dei lavoratori ha svolto almeno una parte dei suoi compiti da casa, rispetto al 19 per cento del 2003 (fonte: Bureau of Labor Statistics). Non è un dato esaltante se pensiamo che almeno la metà dei lavori esistenti potrebbe essere svolta a distanza (fonte: Global Workplace Analytics). Soprattutto i millennial – nati tra il 1980 e il 2000 e cresciuti con le nuove tecnologie – sono i naturali destinatari di queste proposte, anche se molti di loro preferirebbero forse il solido e stabile posto di lavoro dei genitori, ai loro occhi sempre più un miraggio.
Nel frattempo abbiamo capito che il lavoro a distanza non è solo una questione organizzativa, richiede anche la giusta condizione mentale. Il rischio maggiore sono forme di isolamento. In passato si pensava che questo sarebbe stato bilanciato dal maggior tempo libero e dalla vicinanza ai figli e alla famiglia, ma siamo stati troppo ottimisti. Remote working non è di per sé sinonimo di Smart working: è la tesi di Tiziano Botteri e Guido Cremonesi, Smart working & smart workers. Guida per gestire e valorizzare i nuovi nomadi, Franco Angeli editore. Senza lo spazio dell’ufficio e la relazione con i colleghi, è facile perdere il filo. Non a caso lavorare da casa è richiesto sempre più spesso dai dirigenti, abili nel gestire al meglio la propria agenda.
Proprio riflettendo su queste esperienze è nata una nuova proposta: se il lavoro a distanza ci imprigiona tra i muri di casa, usiamolo invece per viaggiare! Il nome è stato presto trovato: Remote Year. Finora il mondo di lingua inglese aveva legato l’esperienza del viaggio soprattutto al Gap Year, ovvero una pausa di un anno nel proprio percorso di studi (spesso dopo la fine delle superiori e prima dell’università) o nel percorso lavorativo (per esempio quando si cambia lavoro). L’idea del Remote Year è invece diversa, perché non prevede di sospendere il proprio lavoro, ma solo di svolgerlo a distanza mentre si viaggia per il mondo.
Seguendo questo filo rosso in rete troviamo numerosi consigli per organizzare da soli o con amici questa avventura. Altrimenti ci si può affidare a dei professionisti, per esempio Remote Year.
Al prezzo di cinquemila dollari d’iscrizione più duemila dollari al mese per le spese, questa società procura alloggi, spazi di coworking e contatti per un anno in dodici diverse città del mondo. Le domande d’iscrizione per i settantacinque posti disponibili sono state migliaia e un’altra decina di organizzazioni simili ha visto la luce in poco tempo.
A dire il vero l’entusiasmo iniziale dei partecipanti non ha retto sempre alla prova della realtà. Alcuni si sono visti ridurre il lavoro dopo i primi mesi in viaggio, perché la loro azienda non condivideva davvero il progetto, come avevano creduto. Inoltre spostarsi ogni mese in una nuova città richiede continui adattamenti. Per esempio la qualità della connessione – un requisito essenziale – varia molto nei diversi continenti: in alcuni Paesi sudamericani o asiatici una videoconferenza è ancora una prospettiva troppo ambiziosa. Inoltre il fuso orario diverso può rendere difficile il coordinamento con i colleghi.
L’esperienza sembra suggerire che il Remote Year non dovrebbe essere la prima esperienza di lavoro a distanza. Inoltre, cambiare città ogni mese può essere frastornante, meglio forse pensare a soggiorni più lunghi: un Paese diverso per ciascuna stagione?
Naturalmente i liberi professionisti hanno avuto meno problemi, ma anch’essi hanno dovuto trovare un nuovo equilibrio per evitare che il tempo del viaggio e della scoperta limitasse troppo il tempo del lavoro, soprattutto a ridosso delle consegne previste. Resistere alle tentazioni non è sempre facile. Come ha scritto Jeremy Miller, un analista finanziario, dalla costa atlantica del Portogallo: «La mattina facevo surf, poi un po’ di lavoro nel caffè lì vicino, poi ancora surf». Avrà dato il meglio di sé ai suoi clienti?