Avanti il prossimo! Nell’ultima riunione a Cracovia, pochi giorni fa, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura (Unesco) ha proclamato venti nuovi luoghi Patrimonio dell’umanità, un riconoscimento ambito e conteso.
Chi l’avrebbe immaginato. Quando l’Unesco fu creata dopo la Seconda guerra mondiale, con il compito di gettare ponti tra le diverse culture per evitare nuovi conflitti, il turismo di massa, in rapidissimo sviluppo (gli arrivi internazionali passarono da 25 milioni nel 1950 a oltre duecento milioni negli anni Settanta), era considerata più una minaccia che un’opportunità. Poi nel 1972 venne introdotta la Lista del patrimonio dell’umanità per censire quei luoghi di valore universale la cui protezione è affidata a tutti gli uomini, senza distinzioni di nazione. La lista ottenne un inatteso successo e questo cambiò completamente la prospettiva, tanto che aggiornare questo elenco è ora l’attività più conosciuta dell’Unesco.
Al momento la lista comprende 1073 siti – 832 per ragioni culturali e 206 naturali, più altri misti o transfrontalieri – distribuiti in 167 Stati. L’Italia è in cima alla classifica con 53 eccellenze, seguita da Cina, Spagna, Francia e Germania; ma anche la Svizzera se la cava bene con le sue 12 proposte, 2 delle quali in Ticino: i Castelli di Bellinzona e il Monte San Giorgio.
Nelle pieghe del successo, qualche ombra. Per esempio i criteri di inclusione ed esclusione non reggono a un’analisi approfondita perché sono deboli, marcatamente eurocentrici e tengono poco conto delle diverse categorie di civiltà e culture non europee. E poi col tempo un certo disincantato realismo si è fatto strada: tutti sanno bene che pressoché qualsiasi luogo significativo può aspirare al riconoscimento Unesco se è in grado di mettere in campo una squadra di esperti, risorse adeguate e anni di duro lavoro per creare il necessario consenso politico attorno alla propria candidatura.
Forse anche per questo da qualche tempo si levano delle voci critiche contro l’Unesco. La più recente e autorevole è quella del sociologo Marco d’Eramo nel suo libro Il selfie del mondo – Indagine sull’età del turismo (Feltrinelli, 2017). «È straziante assistere all’agonia di tante città. Città gloriose, opulente, frenetiche, che per secoli e a volte per millenni sono sopravvissute alle peripezie della storia, a guerre, pestilenze, terremoti. E che ora, una dopo l’altra, avvizziscono, si svuotano, si riducono a fondali teatrali su cui si recita un’esangue pantomima. (…)
Il tocco dell’Unesco è letale: dove appone il suo label, letteralmente la città muore, sottoposta a tassidermia. Questo vero e proprio urbanicidio non è perpetrato di proposito, anzi è commesso in perfetta buona volontà e buona fede, per preservare (appunto) un “patrimonio” dell’umanità. Ma preservare vuol dire imbalsamare, o surgelare, risparmiare dall’usura e dalle cicatrici del tempo».
Il marchio Unesco – continua D’Eramo – getta le città nell’abbraccio letale del turismo di massa. I visitatori allontanano i lavoratori e i residenti dal centro della città, trasformato in un gigantesco museo a cielo aperto, privo di vita e di relazioni sociali. Certo nel caso delle mete più famose – pensiamo a Venezia – l’invasione dei turisti vi sarebbe anche senza l’Unesco. Ma in altri casi il suo ruolo è decisivo. In Asia è esemplare (e paradossale) il caso della città cinese di Lijiang. Distrutta da un terremoto nel 1996, l’anno seguente ottenne il riconoscimento Unesco. Ricostruita in modo arbitrario secondo una logica di sviluppo turistico, accoglie oggi più turisti dell’intera Grecia (oltre venti milioni all’anno).
Il caso di Dresda ha invece mostrato come la tutela dell’Unesco può entrare in contrasto con le legittime esigenze dei cittadini: inserita nel 2004 tra i paesaggi culturali patrimonio dell’umanità, la capitale della Sassonia perde questo titolo già nel 2009 perché i cittadini, per ridurre il traffico, scelgono di costruire un ponte moderno ma questo, a detta dell’Unesco, altera in modo irrimediabile il paesaggio storico…
Nei prossimi anni i criteri e le procedure Unesco dovranno essere ripensati. Ma qualche segnale di novità è visibile sin da ora. I commentatori non lo hanno sottolineato abbastanza, ma tra i venti nuovi siti scelti a Cracovia spicca Asmara, la capitale dell’Eritrea, premiata per la sua architettura modernista. Tra il 1890 e il 1941, l’Eritrea fu colonia italiana e qui negli anni Trenta, ai margini dell’Impero di Mussolini, gli architetti italiani godettero di un’inedita libertà di sperimentazione. Centinaia di edifici realizzati in quegli anni sono sopravvissuti grazie all’isolamento del Paese durante l’occupazione etiope e sono stati poi riscoperti negli anni Novanta dopo l’indipendenza.
L’edificio più originale di Asmara è la stazione di servizio futurista Fiat Tagliero, con le forme di un gigantesco aereo, progettata dall’architetto Giuseppe Pettazzi e inaugurata nel 1938. E molti altri – il Cinema Impero, l’Opera o la Farmacia centrale – hanno conservato anche gli arredi originali. Nei numerosi bar con un’aria felliniana di provincia italiana è rimasta l’abitudine del gelato e del caffè espresso.
Questo riconoscimento all’Eritrea è importante in primo luogo perché segna comunque un momento di apertura alla vita internazionale da parte di un governo dittatoriale ripiegato su sé stesso. Ma soprattutto invita diversi altri Paesi a fare i conti con l’eredità del proprio passato coloniale, spesso rimossa con fastidio e quasi con vergogna. Un esempio che potrebbe essere ripreso in altri Stati africani e nel sud-est asiatico. Con o senza l’Unesco.