Chissà perché non ho mai fatto la corte a Genova? Nel senso di frequentarla, riservarle particolari attenzioni, penetrarne i segreti, conoscerla nella sua intima essenza. Per conquistarla. Come faccio solitamente con molte altre città. Non che l’abbia mai veramente snobbata, ma l’ho sempre trattata da luogo di passaggio, da o per la Riviera, di levante e di ponente, o di ritorno dalla luce abbagliante della Provenza. Tutt’al più mi ci sono fermato quel tanto che basta per una visita all’Acquario o al Museo del mare. Tutto lì. E non è per quel suo chiamarsi «Superba», perché troppo tempo è ormai passato da quando il Petrarca l’ha definita così. D’altronde il grande poeta lo usa in senso buono, quell’aggettivo, quando, nel 1358, di passaggio da Genova tesse le lodi di questa «città regale, addossata ad una collina alpestre, superba per uomini e per mura, il cui solo aspetto la indica signora del mare».
Del resto, molti altri ne hanno vantate le meraviglie. Per Dickens c’è sempre qualcosa da scoprirvi, Flaubert rimane estasiato dal suo splendore e dalla dovizia di marmi, che ricoprono strade, chiese e palazzi, che «si toccano tanto sono vicini e, passando dalla strada, si vedono i soffitti patrizi tutti dipinti e dorati».
Mark Twain è letteralmente rapito dalla sua bellezza e da quella delle sue donne, che ammira passeggiando nelle grandi piazze e nei giardini. «Può darsi – scrive – che vi siano in Europa donne più graziose, ma io ne dubito».
Avidità o parsimonia?
A dire il vero, hanno anche fama di grandi avari, i Genovesi, e Montesquieu li trova poco socievoli a causa di questa «loro estrema avarizia» e ne addita l’avidità, espressione forse della loro lunga tradizione mercantile,
«Quei bei palazzi sono in realtà, fino al terzo piano, magazzini per le merci. Tutti esercitano il commercio, e il primo mercante è il Doge». Più vicino a noi, Maurizio Maggiani corregge il tiro, «Genova parsimoniosa non è mai stata avara. Infatti è colma di bellezza, e la bellezza non abita nell’avarizia. La natura della sua bellezza consiste nella complessità, e la complessità in Genova si forma nell’accumulo, nella sovrapposizione, nell’accatastamento, nella coabitazione… Può darsi che la parsimonia venga dal mare; di sicuro nel porto non si butta via mai niente e niente è mai passato» 1.
Date queste premesse, penso sia tempo e ora di riservare alla Superba maggiore attenzione. E così, decido di passarci qualche giorno girovagando per i suoi caruggi, gli angusti vicoli che ne sezionano il centro storico.
«Sono partito da Sottoripa, punto cardinale di una città che serba intatto il suo mistero» 2.
Mi sembra una buona idea, quella di Tabucchi. Per cui parto anch’io di qui. È proprio passando dal vicolo di Sottoripa, che comprendi l’atavico rapporto di Genova con il mare. Quel mare, che un tempo arrivava a lambire i lunghi portici, i più antichi d’Italia, le cui fondamenta sono sotto ripa, ovvero costruiti sotto il livello della banchina portuale. Qui in passato erano ospitati i magazzini debordanti di merci appena sbarcate o pronte a prendere il mare, ora invece c’è un’infilata di negozi, pizzerie, osterie, che sanno evocare fantasie di viaggi, salsedine e terre lontane ormai solo con il loro nome.
Lì di fronte, oltre la (purtroppo) oscena Sopraelevata intasata di traffico, c’è il Porto Antico, ridisegnato nel suo complesso da Renzo Piano, in occasione delle Celebrazioni colombiane del 1992, e oggi una delle aree più animate della città. Infatti c’è ressa, in questa tiepida domenica mattina. Un brulicare di famiglie in fila davanti all’Acquario, bambini che si rincorrono, turisti che passeggiano, coppie sorridenti per un selfie, venditori di bibite, gelati, gadgets colorati e ricordi vari, vucumprà sul chi vive e drappelli ciondolanti di extracomunitari. C’è un viavai anche sui ponti del Neptune, quello dei Pirati, di Roman Polanski, costruito espressamente per il film, nel 1986, in un cantiere navale tunisino. Non solo sta a galla, ma può navigare per davvero, come un autentico vascello d’altri tempi e, dopo aver fatto tappa al porto di Cannes, per la presentazione al Festival della pellicola di Polanski, è arrivato a Genova e ora eccolo lì, ormeggiato al Ponte Calvi come attrazione turistica. Immobile, che non sembra quasi appoggi sull’acqua, con un enorme dio Nettuno armato di tridente a far da polena, i cannoni che si affacciano dai boccaporti e le cariatidi dorate a sostenere il castello di poppa.
Quante ne avrà viste, di navi così, il Porto Antico, nella sua storia? Tante, perfino una dallo scopo oltremodo curioso. Quella che, sul declinare del Seicento, il duca Andrea Doria ormeggia qui trasformandola in un originale postribolo galleggiante. A proposito, eccomi in Via del Campo, dove negli anni Sessanta un giovane De André incontra una graziosa, dagli occhi grandi color di foglia, che tutta la notte sta sulla soglia e vende a tutti la stessa rosa. Si scoprirà poi essere un travestito, di nome Giuseppe, che si faceva chiamare Joséphine.
Faber ci ricava comunque la sua bella canzone.
Stamattina, in Via del Campo, non ci sono né graziose né bambine con le labbra color rugiada, vedo solo una rosa appassita, appiccicata ad un muro sotto una targa omaggio al grande De André, la quale ricorda che «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior».
Questo è il cuore antico e popolare della Superba, dove un tempo fiorivano i più svariati e bizzarri commerci, alimentati dalla vicinanza del porto. Per favorirne la ripresa economica, dopo l’epidemia di peste del 1656, si permette l’insediamento in città degli Ebrei, che qui avranno il loro ghetto. In questi vicoli, nel Quattrocento, per un privilegio concesso ai monaci devoti a Sant’Antonio Abate, santo ritenuto taumaturgo, potevano vagare liberamente branchi di porci, che facevano da spazzini e tenevano, si pensava, lontani i malanni.
Proseguo per Via di Pré, risalgo la suggestiva piazza dei Truogoli di Santa Brigida, serrata da alti palazzi colorati, su cui sventolano come bandiere panni messi ad asciugare. In mezzo c’è uno dei pochi lavatoi seicenteschi sopravvissuti in città.
Raggiungo Via dei Balbi e quella che, nella stratificazione cittadina, definirei la Genova aristocratica e della borghesia mercantile. Incomincio ad avvertire odore di casa e scopro che, dietro la profusione barocca di palazzi e monumenti, c’è lo zampino di architetti, scultori e altre maestranze provenienti dalle terre ticinesi, che qui hanno lavorato dal XV al XVIII secolo.
I Cantoni, per esempio, della Valle di Muggio, che si son dati da fare e hanno lasciato il segno in decine di opere a Genova e in tutta la Liguria.
Pier Francesco è tra i costruttori, a metà Seicento, dell’imponente dimora patrizia della famiglia Balbi, poi dei Durazzo, divenuta infine Palazzo Reale nel 1824. Ceduto dai Savoia allo Stato italiano a inizio Novecento, oggi è Patrimonio dell’Unesco e conserva intatti gli spazi interni, in cui si possono ammirare pregevoli arredi e opere originali.
Mi ributto nell’intrico di caruggi, in cui il sole s’infila a stento, lasciando sul lastricato chiazze d’umidità, residui, spero, di un dubbioso piovasco notturno.
In Vico di Pellicceria ci sono le Gallerie Nazionali di Palazzo Spinola, dove mi attende, tra le altre opere eccezionali, un dolente Ecce Homo di Antonello da Messina. All’entrata, mi salta all’occhio il monumento funebre con il ritratto equestre del padrone di casa, Francesco Spinola, trapassato nel 1442, superbamente ritto sul suo cavallo. È l’opera dello scultore Filippo Solari da Carona, il quale, nel suo laborioso vagabondare tra le città italiane, approda anche a Genova e vi lascia le sue tracce, qua e là condivise con quelle di un suo conterraneo, Andrea da Ciona.
Prossima tappa, Via Garibaldi, nata come Strada Nuova a metà del Cinquecento, su cui si affacciano il Palazzo Rosso, il Palazzo Bianco e il Palazzo Doria Tursi, tre delle oltre cento sontuose dimore nobiliari della Superba, conosciute come i Rolli.
Un certo languorino mi distoglie dalla peregrinazione storico-artistica, così adocchio un ristorantino che promette bene. Un ambiente intimo, che profuma di pasta fatta in casa, ma anche della «puzza sotto il naso» di buona parte degli avventori, signore di mezz’età ingioiellate e spocchiose, in casual firmato, immerse in fitte conversazioni inspiegabilmente multilingue per commensali tutte italiane. Che facciano parte dei «discendenti della dignità dogale della Repubblica. L’aristocrazia borghese» 3, che Maurizio Maggiani non sospettava nemmeno potessero esistere e che si è visto «passare sotto il naso mille volte» senza saperli riconoscere? Le ignoro, ormai catturato da uno squisito piatto di trofie al pesto.
Il simpatico padrone, però, la sa lunga.
Mi racconta che a costruire la Strada Nuova e i palazzi sono stati alcuni architetti lombardi, che arrivavano qui con aiutanti e famiglie al seguito. Ticinesi, anche loro? Un interessante studio di Stefania Bianchi mi toglierà ogni dubbio 4.
L’artefice della progettazione della Strada Nuova è uno dei capostipiti della famiglia Cantoni, Bernardino, arrivato a Genova, quattordicenne, nel 1519. Anche al Palazzo Rosso, ora museo, lavorano tra il 1671 e il 1677 maestranze della valle di Muggio, come un altro discendente dei Cantoni, Pietro Lorenzo, a cui succede il figlio Gaetano, o i Maggi e i Pozzi. E ancora, Simone Cantoni, a cui si deve la settecentesca facciata neoclassica del Palazzo Ducale, oggi fulcro della città e centro della sua vita culturale.
I nomi si susseguono, saltano fuori da ogni dove, come dire, la nostra gente ha fatto grande anche la Superba, ha contribuito a edificarne l’immenso patrimonio storico e artistico e a perpetuarne la bellezza.
Si sta facendo tardi e il mio alluce destro dà segni di sofferenza, per cui mi limito a una capatina nella cattedrale di San Lorenzo, dove mi stupisce un’enorme bomba, messa lì a mo’ di scultura in un angolo della navata. È la replica dell’ordigno inglese che ha colpito l’edificio religioso nel 1941, sfondandone il tetto, ma rimanendo inesploso.
Attraverso la splendida Piazza Ferrari, con la sua spumeggiante fontana, do un’occhiata all’improbabile Casa di Cristoforo Colombo, ammiro l’antica Porta Soprana con le sue slanciate torri, dove un tempo erano appese le teste dei condannati a morte, a monito dei passanti. Mi affretto verso l’Oratorio di Sant’Antonio Abate della Marina. M’incuriosisce il Cristo Moro, lì conservato, un crocefisso processionale in legno di giuggiolo del 1639, opera di un altro dei «nostri», Domenico da Bissone. Ma lo trovo chiuso.
E così torno al Porto Antico, mentre il sole già imporpora il mare su cui si staglia la sagoma scura della Lanterna, il faro simbolo di Genova, alla cui ricostruzione nel 1543 collaborano il buon Bernardino Cantoni, sempre lui, e Francesco di Gandria, allora architetto del Comune.
I «Rolli», l’albergo diffusodel Cinquecento
A volte li scopri sfogliando un libro, ricordando qualche verso, adocchiando un nome inciso su una lapide o su un frammento di pietra urbana incastonato in un muro. Letterati, poeti, artisti, musicisti, navigatori, papi e santi, è sorprendente quanti personaggi hanno soggiornato a Genova. E tutti hanno lasciato un segno, una traccia seppur minima nella vita e nella storia della Superba.
Vip stranieri in città
Oltre a quelli già ricordati, ne butto lì qualcun altro. Anton Cechov, ad esempio, Alexandre Dumas padre, Friedrich Nietzsche, Lord Byron, o, ancora, Oscar Wilde e colei che sarà sua moglie fino allo scoppio dello scandalo per l’omosessualità dello scrittore, Constance Lloyd, morta in Liguria nel 1898 e sepolta nel cimitero monumentale di Staglieno, sulle colline di Genova, dove Wilde torna l’anno seguente, per depositare un fiore sulla sua tomba.
Ma che ci venivano a fare, tutti questi stranieri, nella città ligure? Che non ha il fascino lagunare della Serenissima o l’eredità del mondo antico di Roma oppure l’abbondanza artistica di Firenze, tra le mete più gettonate del Grand Tour.
La maggior parte sembra fosse qui solo di passaggio, sulla strada per altri lidi. D’altronde si sa, nel passato il viaggio è un’avventura, un evento con i suoi ritmi e i suoi tempi. Si fa tappa qua e là lungo il percorso e ci si ferma per giorni o settimane.
E così tutti questi illustri viaggiatori scoprono lentamente le bellezze della Superba e ne rimangono affascinati «fino al punto di sentirmi attratto fin dalle pietre delle vie» come scriverà Paul Valéry. Soggiornano spesso negli stessi alberghi, come l’Hotel France, il Croce di Malta, il Feder o la Pensione svizzera, oppure ospiti nelle ville di conoscenti e amici. C’è un periodo però nel passato di Genova, in cui si sperimenta una forma particolare di ospitalità, in un certo senso il primo esempio di albergo diffuso, anche se non proprio appannaggio dei comuni mortali: i Rolli.
Ricchezza e bellezza
A metà del 1500, il Secolo d’oro della Repubblica genovese, un vasto progetto urbanistico trasforma una parte della città vecchia in una straordinaria vetrina traboccante di ricchezza e bellezza. Si apre la Strada Nuova, su cui vengono ad affacciarsi le sontuose dimore delle grandi famiglie, con gli interni decorati dai migliori artisti dell’epoca dai fiamminghi Rubens e Van Dick a Tiziano o Paolo Veronese. Li chiamano i Rolli, questi palazzi, nei quali i proprietari, per un curioso decreto del Senato, sono obbligati ad ospitare le importanti personalità in visita di stato alla città. Agli ospiti, teste coronate, diplomatici, esponenti delle alte gerarchie della Chiesa, vengono assegnati i palazzi in base a un sorteggio dalle liste degli alloggiamenti pubblici, detti appunto rolli, o ruoli, ovvero elenchi. Da lì, il nome. Un’usanza che durerà almeno fino all’inizio del Settecento.
Note
1. Maurizio Maggiani, Mi sono perso a Genova. Una guida, Feltrinelli Editore, Milano, 2018, pp. 80-81
2. Antonio Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, Feltrinelli 2010, pg. 109
3. Maurizio Maggiani, op. cit., pg. 43
4. Stefania Bianchi, Partir per Genova: il contributo di alcune maestranze della valle di Muggio al settecentesco rinnovamento edilizio della città, in Mélanges de l’école française de Rome , 2007, pp. 285-297
Una delle quarantadue antiche residenze genovesi, dove dal XVI sec. venivano ospitate le celebrità di passaggio. Ogni anno nei «Rolli Days» vengono riaperte al pubblico.