«To’ – mi fa il Sigi, allungandomi sopra il tavolo uno spesso plico di fogli – dai un’occhiata, magari ci trovi qualcosa d’interessante». Sono decine di pagine fitte fitte, scritte con una calligrafia ordinata e pulita, direi quasi d’altri tempi. «Le memorie di mio padre – dice – ricordi della sua giovinezza a Mergoscia. Li ha scritti durante i numerosi soggiorni in ospedale, per riempire le giornate».
Luigi, detto Gino, papà di Silvano «Sigi» Giannini, se n’è andato sette anni fa, novantenne. Nato nel 1924, ultimo di una nidiata di dieci fratelli e sorelle, il Gino non ha avuto vita facile. Ha passato infanzia e giovinezza lassù, in quel suo paese aggrappato alle falde del Madone, che vanno giù, a balzi, verso il fondo della Verzasca, nella «strozzatura infernale» dove allora scorreva libero il fiume e dove ora riluce l’acqua blu del lago di Vogorno.
A Mergoscia, come nella maggior parte dei villaggi delle vallate alpine, allora si tirava avanti con un’economia di sussistenza, spesso insufficiente a sfamare le bocche di tutti. E fin dalla più tenera età, ragazzi e ragazze dovevano darsi da fare per aiutare la famiglia. Così il Gino si fa le ossa rincorrendo capre sui monti e sugli alpi e grattando la terra trattenuta a forza da chilometri di muri a secco, in cui si coltivavano segale, frumento, granoturco, patate e altri ortaggi o su cui cresceva la vigna formando lunghi pergolati.
Da grande, dopo aver iniziato un apprendistato di macellaio (mestiere che non gradisce), grazie al suo carattere schietto e allegro e a una spiccata facilità a relazionarsi con il prossimo, gli offrono un posto di assicuratore, professione che lo terrà occupato con successo per tutta la vita. Una vita segnata anche dalla sofferenza, dopo che un intervento a dir poco sciagurato ne minerà la salute. «Era andato alla Clinica universitaria di Zurigo, per cercare una soluzione a un suo problema medico – mi racconta Silvano – ma i professori non hanno trovato di meglio che testare su di lui e una ventina di altri poveri pazienti i primi trattamenti a base di cobalto. Quelle radiazioni, che devono durare tre secondi, ne erano durati trenta facendo uscire tutti “crivellati”, con gravi lesioni interne, che ne avrebbero poi causato la morte». Gino sopravvive, ma avrà la vita distrutta e sarà costretto a lunghi periodi di ospedalizzazione. Ed è lì che inizia a scrivere, a mettere nero su bianco i suoi ricordi, le sue emozioni.
«In queste interminabili notti di dolori e insonnia, nella corsia d’ospedale, nella mia povera mente passa quello che vorrei definire il nastro della vita passata, con tutti i suoi ricordi, dalla più tenera infanzia, all’adolescenza, alla giovinezza. Ricordi dei nostri cari monti, Bietri, Faedo, Lego, Caürga, Cresta, Fossèi…, dove ho passato i giorni più belli della mia giovinezza, povero in canna, ma pieno di gaiezza e felicità fatta di niente».
Quando Sandro Ghisla, oggi sindaco del paese, impegnato nella raccolta di dati e testimonianze per il volume su Mergoscia (AAVV, Repertorio toponomastico ticinese n.34. Mergoscia, Centro di dialettologia e di etnografia, Bellinzona, 2018), si rivolge a lui quale fonte autorevole per la conoscenza del territorio, delle vecchie famiglie e, in generale, della vita dei Mergoscesi, il Gino rinasce e si mette a disposizione con entusiasmo. I suoi racconti, sommati a quelli di er Rosign (Rosina Ghisla, 1889-1993), andranno a formare buona parte del corpus di informazioni raccolto nella pubblicazione. E a me, hanno dato lo spunto per quest’escursione.
A Mergoscia non ci arrivi per caso. Lo vedi lassù, il paese, con i suoi nuclei e le decine di costruzioni sparpagliate sulla montagna sopra la diga di Contra, e questo potrebbe bastare a incuriosirti e a solleticare la voglia di imboccare la strada tortuosa che sale da Tenero. La prima volta che ci sono stato erano gli anni Ottanta, quando ancora non c’era la galleria (inaugurata nel dicembre del 1997), che ha poi permesso di by-passare la Valle del Crosone, fonte di disagi e pericoli per la viabilità del collegamento stradale di fine Ottocento.
Lo si vede bene, il vecchio tracciato, dal sagrato della chiesa. Una lunga ruga sinuosa incisa sul fianco della montagna. A una curva, la sagoma chiara della Cappella di Peritt, tirata su nel 1905 dai figli di Giuseppe e Marianna Perini in memoria dei genitori, dove i passanti si dissetavano con una sorsata d’acqua sorgiva, che zampillava da una fontana al suo interno. Lo sguardo è poi risucchiato dalla valle, lì sotto, con il lago di Vogorno, che trasuda riflessi argentei. Più lontano, il baluginare del Verbano, i primi lembi del Piano di Magadino e la sponda ombrosa del Gambarogno.
Bagnata dalla luce pulita di questa tranquilla giornata d’autunno, la chiesa parrocchiale dei Santi Gottardo e Carpoforo è un invito a soffermarti un attimo in ammirazione prima di metterti in cammino. Il tempio, che al suo interno conserva un pregevole affresco con la Madonna del latte, pazientemente strappato da una casa della frazione di Lissói, si affaccia su uno splendido sagrato, uno dei più autentici rimasti nelle nostre valli. In un angolo c’è poi l’ossario e, dirimpetto, il campanile con il portico che dà accesso al cimitero.
«Si direbbe che il mondo finisca qui, in una pace stanca e felice», scriveva Piero Bianconi (nel suo Croci e rascane, Armando Dadò editore, Locarno 1980, pg. 28) a proposito del paese dei suoi antenati, ma quando arrivi alla fine della strada ti rendi conto che qui si aprono tante vie per altri mondi e per immergerti nell’intimità di quello che, a ogni piè sospinto, ti regala una miriade di segni, grandi e piccoli, lasciati dalla civiltà rurale, quella sì «stanca» e rassegnata, o in quello avvolgente di una natura rigeneratrice e «felice».
Mi avvio sulla lunga scalinata, che mi porta a Benitt, una delle quattro frazioni di Mergoscia. Un mucchietto di case silenziose e cariche di anni, con le finestrelle orlate di bianco, i ballatoi tra sole e ombra, animati dal lieve sfarfallare delle foglie di vecchie viti. Sopra una porta, un povero Cristo in croce, affiancato dalla Madonna e da San Giovanni, con la data, 1733, e un cartiglio su cui tale Jacomo Papino ricorda d’aver fatto fare l’opera per «devotione a nome dei suoi eredi».
Buona parte degli edifici, un tempo umili e dimessi, sono ora riattati e curati e, in generale, domina un buon gusto fatto di muri in pietre squadrate, una distesa grigia di tetti in piode, fantasiose decorazioni e piante ornamentali.
Quasi quasi ti sembra impossibile che, fino a un secolo fa o anche meno, qui si viveva di stenti e spesso si pativa la fame. Lo ricordano, tra le altre, le pagine del Gino, quando parla della gente del posto e dei suoi avi, come il nonno Pietro, morto nel Venti, spazzacamino in Italia a partire dai sei anni. Quando torna, gli dicono che «el pa’ è là dietro alla chiesa da tre mesi», ammazzatosi cadendo da una pianta di castagno. Orfano, ma non rassegnato, lui torna a raspar fuliggine dai camini, poi, diciottenne decide di emigrare in Australia. Sono anni di fame, e la madre, per mettere nel piatto un surrogato di polenta, polverizza cortecce di faggio nella pila, rudimentale mortaio scavato nella pietra, visibile ancora tra le cascine di Faedo.
Una sera lui le dice, «vado a dormire, se domani, quando mi sveglio non ho niente da mettere sotto i denti poco bella sarà», intendendo, meglio farla finita subito, che morir di fame. Il mattino dopo trova sul tavolo di cucina un piatto di polenta, di quella vera. Dove sua madre fosse riuscita a racimolare quella manciata di farina, lui non lo saprà mai, ma, prima di emigrare, le prepara un piccolo orto da seminare a granoturco e poi prende la via del mare.
In molti, tra Otto e Novecento, lasceranno il paese in cerca di fortuna, tanti non torneranno più e tanti torneranno poveri come prima e continueranno a sfaticare sui monti e sugli alpi, a sfruttare i boschi, a tirar su stalle e cascine (ce ne sono a centinaia sparse sulla montagna) e muri a secco, come quelli che incontro sul sentiero per Perbiói, restaurati dalla Pro Mergoscia ricreando gli originali terrazzamenti.
L’associazione, nata nel 2003 con lo scopo di salvaguardare e valorizzare il patrimonio naturale e culturale del villaggio, ha promosso vari progetti, ripristinando, tra l’altro, il forno, il mulino, il torchio, e le vecchie colture abbandonate, come la vigna su pergolato o le selve castanili. Tante tessere del mosaico di quel paesaggio antropizzato «messe in rete» tramite un sentiero culturale e naturalistico. Progetti che, se da un lato vogliono creare concretamente «delle opportunità economiche legate al turismo locale e alla formazione», dall’altro servono a non dimenticare e a tributare un doveroso omaggio a chi, quassù, ci ha preceduti.
Nella conca di Perbiói si respira la pace, gli alberi attendono in silenzio di scrollarsi di dosso le ultime foglie e l’acqua immobile dello stagno riflette la sagoma bianca del Pizzo Vogorno. Ormai non è più la stagione dei voli d’insetti nell’aria, del gracidare monotono delle rane o dei battiti delle ali dagli occhi dorati delle baccanti (la baccante, Lopinga achine, è una farfalla con le ali bordate da una fila di «occhi» dorati) e nemmeno delle danze arcane delle Crüsc, le streghe, che l’autunno scendevano qui dalle loro spelonche di Porchèsc (Porchesio, nucleo di insediamenti montani adagiato sotto il crinale, tra le valli di Mergoscia e di Corippo).
Poco più su, ecco i monti di Cortói, un’azienda agricola e manciate di cascine sparpagliate nei prati e riattate con cura. Alcune abitate tutto l’anno, altre gestite dalla Cooperativa Campo Cortói, fondata nel 1964, che organizza soggiorni di vacanza e attività varie per giovani, scolaresche o famiglie. Tra viottoli e vecchi muri, oggi la vita qui è declinata in tedesco, quasi a voler rappresentare un compendio dell’evoluzione demografica di Mergoscia degli ultimi decenni, che ha visto il declino dell’elemento indigeno, a favore di chi è calato da nord a comprare casa.
D’altronde lo Schwyzerdütsch mi segue lungo tutto il cammino. Scendendo da Cortói e passando da Fossèi, incontro un basilese che mi apre sotto il naso un cartoccio pieno d’uova fresche e mi indica un cascinale in fondo al prato, caso mai ne volessi comprare anch’io. Più in là, continuando verso Caürga, qualcuno sta bruciando sterpaglie e anche il denso fumo che inghiotte il sentiero mi porta lontane inflessioni teutoniche. A Bresciàdiga, invece, odo solo echi di belati e il risuonare monotono di campanacci. Alcune decine di capre brucano tranquille in mezzo ai prati.
Mentre mi riposo sotto un maestoso faggio, che si alza nel cielo come una vibrante fiammata, osservo, nell’ombra della Valle di Mergoscia, il ripido Bosco di Faedo, regno un tempo dei boscaioli bergamaschi. «Era la fine dell’Ottocento – annotava il Gino – e uno di questi era un Salvi, di Valsecca. Aveva con sé la moglie, che faceva la carbonaia e alimentava con piccoli pezzi di legna il poiàtt, la catasta in cui “cuoceva” il carbone». La donna era agli ultimi giorni di gravidanza e, venuto il momento, non fece in tempo a scendere al piano, così partorì il figlio proprio lì, sotto la Sprüga Taragna, il grande masso che serviva da rifugio di fortuna ai boscaioli.
Lo chiamarono Antonio, il bambinello, che da grande divenne prete, fu parroco di Gordevio per trentasei anni e tornò spesso a Mergoscia, dove da tutti era simpaticamente chiamato il Gesù Bambino del Faèd.