Itinerario

Partenza: Medeglia  (703 msm)

Si attraversa il vecchio nucleo, con le sue viuzze e i portici che riparano dal sole nelle calde giornate estive. Il sentiero costeggia il limite superiore del paese e sale (in parte anche sulla strada carrozzabile) verso Canedo (840 msm), da lì inizia un lungo tratto piuttosto ripido, con un susseguirsi di scalinate e qualche resto di mulattiera lastricata.

Si passa dal bel monte di Troggiano (1065 msm), poi la vegetazione si dirada quando si raggiunge l’alpe Sopra Canàa (1132 msm). Poco più su c’è una lunga trincea con i ricoveri per i soldati, che fa parte del sistema difensivo risalente alla Prima guerra mondiale, che si estende dal Monte Ceneri fino all’alpe del Tiglio (vedi il sito).

Arrivo: Cima di Medeglia (1260 msm)
Dislivello in salita:
557 metri
Lunghezza del percorso: circa 13 km
Tempo di percorrenza:
circa 6 ore
Difficoltà: T2

È un peccato rifare lo stesso percorso per la discesa. In quest’occasione, allungo la piacevole escursione scendendo verso Motto della Costa e i vasti Monti di Medeglia (dove si incontra la strada carrozzabile). Da lì un comodo sentiero mi riporta in paese, passando da Camarè, Brumo e Bovarescia.

L’itinerario può essere variato a piacimento, essendo numerosi i sentieri che collegano i vari gruppi di cascine e casette di montagna.

I percorsi sono segnalati, ma a volte le indicazioni mancano, per cui è meglio dotarsi delle cartine topografiche 25:000 (Bellinzona e Tesserete) o, meglio ancora, dell’applicazione di Svizzera Mobile.

L’escursione, piacevole e molto panoramica: è adatta a tutti. Non presenta particolari difficoltà, ma è piuttosto lunga, anche se non mancano le possibilità di accorciarla. Si può ad esempio partire da Canedo, che si raggiunge in macchina.


Quando i naufraghi eravamo noi

Itinerari - Escursione alla Cima di Medeglia ricordando una tragica storia di mare
/ 26.07.2021
di Romano Venziani, testo e immagini

Quando la sagoma smisurata squarciò la cortina di nebbia, Carlo e Giuseppe si erano addormentati da poco. D’altronde, gli sarebbe stato difficile chiudere occhio prima, con tutto il baccano fatto dagli Americani, che avevano festeggiato la vigilia del loro Independence Day, cantando e ballando. Tutta gente della prima classe, che si era accalcata sul ponte subito dopo cena.

Avvocati, commercianti, musicisti, artisti. Alcuni, forse un po’ alticci, avevano perfino rivolto loro la parola e stretto la mano, quando avevano saputo che erano svizzeri. I due erano a disagio, con quei vestiti addosso, ma Mr. Angell, diretto a Ginevra per raggiungere la moglie e i due figli, li aveva presi sottobraccio e li aveva presentati al suo collega Antony Pollock, avvocato di Washington, in viaggio con la consorte, e a Mr. Weiss, musicista, membro dell’Orchestra sinfonica di Boston.

A Carlo e Giuseppe non pareva vero di poter brindare con quei signori in giacca e cravatta e quelle donne ingioiellate alla salute dell’America. Quell’America che, per loro, non era stata certo un Eldorado, ma che gli aveva permesso di risparmiare un bel gruzzoletto e di tornare a casa meno poveri di quando erano partiti.

La loro storia me l’ha raccontata anni fa Arlène Richina Zucchetti, che a sua volta l’ha «ereditata» da suo padre, Rinaldo Richina, il «cow boy di Robasacco», che l’America l’aveva fatta anche lui, nel suo ranch in California, tra il 1953 e il 1967. Arlène è la bisnipote di Giuseppe Canetti, emigrato laggiù nella seconda metà dell’Ottocento con l’amico Carlo Alberti, e il racconto che mi ha confidato ha la freschezza dei ricordi tramandati oralmente dai due protagonisti involontari di quella che, come vedremo, avrà tutti i tratti di un’avventura. Tragica per molti e a lieto fine per i due emigranti, che ne rievocheranno ogni minimo dettaglio fino al termine della loro lunga vita.

Giuseppe era di Canedo, un grumo di case rannicchiato nei boschi di castagno sopra Medeglia. Da tempo volevo andare a darci un’occhiata, fosse solo per conservarne uno scampolo d’immagine nella memoria di quella vicenda.

Lì sopra spunta una cima estremamente panoramica, quella di Medeglia, avamposto prealpino che si affaccia a trecentosessanta gradi su tutto il Ticino centrale. Un cocuzzolo alla portata di tutti, come del resto buona parte di quelli che l’orogenesi si è data la pena di generare a meridione della famosa Linea insubrica, regalandoci la sottile illusione di calpestare terra africana. Scopro che il percorso più diretto per raggiungerla passa proprio da Canedo: una manciata di case, l’osteria, dove si ciba quello che c’è, e un oratorio settecentesco con i tre santi, a cui è dedicato, che occhieggiano dalla facciata: Giulio, Antonio e Lucio, il quale se ne sta lì con una forma di formaggio sotto il braccio a ricordare il suo campo di competenza.

E così mi metto in cammino tra castagni secolari, massi erratici, vecchi muri avvolti dalla vegetazione e guizzi di lucertole. Mi piace pensare che su questi sentieri ci sarà passato chissà quante volte, prima e dopo la sua vita di emigrante, anche Giuseppe Canetti, detto Càpii, per quella sua abitudine di chiedere a tutti «t’è càpii?» («hai capito?»).

Forse serberanno parimenti il ricordo dei pesanti scarponi di Carlo Alberti, che invece era di casa di là dal monte, a Robasacco. Anche lui aveva il suo nomignolo, Sanababìch, colorita espressione sulla bocca di tanti emigranti, che storpiavano nel loro inglese approssimativo l’improperio tutto americano son of a bitch, ovvero figlio di buona donna.

Ma torniamo alla loro storia.

Ultimi giorni di giugno del 1898. Il treno corre in una nuvola di fumo divorando quell’immensa distesa di sogni e di speranze che era, allora, l’America. Carlo e Giuseppe guardano il paesaggio sfilare fuori dal finestrino e sono felici. Felici di tornare finalmente a casa, di rivedere la famiglia (Giuseppe si era sposato poco prima di partire e la moglie lo attende a Canedo) e gli amici, di sporcarsi le mani con la loro terra.

L’avevano già fatto alcuni anni prima, in senso inverso, quel viaggio, sobbalzando sul vagone che li trasportava verso il Far West, a munger vacche nei ranch di Guadalupe. In quell’occasione avevano contemplato l’America, che scivolava via oltre il vetro appannato, con gli occhi impauriti e incantati di chi non aveva mai visto niente in vita sua.

Non era poi tanto diversa dai nostri paesi, l’America. Era solo più lunga e più larga, con quel po’ po’ di cielo e praterie gialle a non finire, ma dovevi lavorare anche lì da stelle a stelle per guadagnarti qualche dollaro da portare a casa.

Ora, però, le emozioni sono altre e non gli pesano quei quattro giorni di tragitto tra San Francisco e Nuova York.

Qui i due s’imbarcano su La Bour-gogne, il veloce vapore postale francese, che una decina di anni prima ha stabilito il record sulla tratta transatlantica, percorsa in otto giorni e sei ore. «Vanno accorciandosi sempre più i tempi delle traversate dei mari» scrivono all’epoca i giornali; sebbene, a inizio luglio del 1898, alla Bourgogne e ai suoi ignari passeggeri è riservato un infausto destino.

Il 4 del mese, dopo due giorni di navigazione, a sessanta miglia a sud di Sable Island, una delle isole della Nuova Scozia, il piroscafo solca veloce le acque dell’Atlantico avvolto da una fitta nebbia, che, giocando con le prime luci dell’alba, crea fantasmagoriche visioni.

Il capitano Deloncle ordina di suonare la sirena, come prevede il regolamento in casi del genere. Il suono reiterato e cupo riempie l’atmosfera surreale e, forse, copre il lamento del corno emesso da un’altra presenza ancora invisibile. All’improvviso, un’enorme ombra nera si abbatte con un tuono spaventoso sulla Bourgogne, scuotendola fin nelle sue viscere più profonde, dove dormono centinaia di passeggeri.

Quell’ombra ha un nome impresso sulla prua: Cromartyshire, un mercantile britannico in viaggio da Dunkerque a Filadelfia con un carico di calce.

L’impatto con il veliero, seppur più piccolo, apre uno squarcio profondo nella fiancata della Bourgogne. Sulla nave ormai invasa dall’acqua e dal panico di quei disperati, ognuno pensa alla propria salvezza e il viaggio si trasforma in un incubo senza fine.

 «In un attimo, il ponte tranquillo del vapore si tramutò in un inferno. Le donne che impedivano il passaggio verso le scialuppe furono pugnalate da quegli uomini rudi». («The San Francisco Call», 9 luglio 1898, pag. 3).

Gli ordini del capitano Deloncle e dei suoi ufficiali si perdono tra le urla della gente, l’equipaggio pensa a mettersi in salvo e tocca agli stessi passeggeri calare le scialuppe. Alcune si rovesciano riversando in mare gli occupanti, che sono inghiottiti dalle fredde acque dell’Atlantico. Chi si dibatte tra le onde e cerca di aggrapparsi alle barche viene respinto a colpi di remo o preso a coltellate dai marinai.

Mrs. La Casse, di Plainville, New Jersey, unica donna (su trecento), che riesce a salvarsi avvinghiata a una «zattera» formata da sedie pieghevoli, racconterà di aver udito un ufficiale gridare: «Accidenti ai passeggeri, si salvino da soli, salviamoci noi per primi. Se avessi una pistola li ammazzerei tutti io». («The San Francisco Call», 9 luglio 1898, pag. 3). I giornali americani e inglesi, dando credito alle testimonianze delle atrocità riferite dai sopravvissuti, accuseranno i marinai francesi, difesi invece dalla stampa connazionale, che punterà il dito su quelli austriaci e italiani.

Avvolta da quel caos infernale, la Bourgogne in pochi minuti cola a picco, trascinando in fondo al mare 549 persone delle 714 presenti a bordo. 165 i sopravvissuti, di cui 109 membri dell’equipaggio. Dei passeggeri della prima classe non si salva nessuno. Gli altri viaggiatori periti nel naufragio sono soprattutto turisti della classe media americana, qualche famiglia francese, commercianti, sarte, modiste, artigiani, tra cui i migliori dipendenti della Maison Tiffany di New York, diretti in Europa per studiare i nuovi modelli di gioielleria. Tanti gli emigranti, che tornano a casa stipati nella terza classe. Tra di loro c’è anche tale Yousouff, lottatore del sultano, conosciuto con il soprannome di Turco terribile, che, tempi addietro, ha divertito con le sue muscolose esibizioni gli habitués delle Folies Bergères.
Carlo e Giuseppe quella notte decidono di dormire sul ponte, stufi di condividere con la folla di disperati l’aria soffocante della stiva. Questa decisione sarà la loro salvezza.

I due riescono a imbarcarsi su una delle prime scialuppe calate in mare e si ritrovano sballottati dalle onde con altri tredici compagni e un marinaio francese. Quest’ultimo, terrorizzato all’idea che la barca sovraccarica possa affondare, getta tra i flutti una donna, che annega sotto gli occhi dei figli. Poi a essere scaraventato in mare è il povero Carlo Alberti, che riesce ad aggrapparsi al bordo della scialuppa, ma il marinaio gli fracassa le mani a colpi di remo. Il poveraccio resiste e grida «Mon Dieu» e «Vive la France», nella speranza di intenerire l’energumeno. A salvarlo sarà però la pronta reazione dell’amico Giuseppe e degli uomini a bordo, che colpiscono il marinaio e lo buttano in mare. Mentre gli altri superstiti sono tratti in salvo dall’equipaggio della Cromartyshire, la scialuppa con i nostri due emigranti va alla deriva per otto interminabili giorni. I bambini muoiono, gli altri occupanti ormai allo stremo sono raccolti da una nave francese, che li porta in salvo ad Halifax.

Perduti tra le onde dell’Atlantico i soldi risparmiati in California, Carlo e Giuseppe tornano a casa dopo la metà di luglio (Cfr. «Gazzetta Ticinese», 20 luglio 1898: «Sono giunti a Bellinzona i Sig.ri Canetti Giuseppe, di Medeglia, e Carlo Alberti di Robasacco […] scampati dal naufragio della Bourgogne […] I due nostri concittadini […] confermano pure le scene di barbarie che ebbero luogo in occasione del naufragio»). Si rifaranno una vita nei loro rispettivi paesi. «Sono un naufrago» ripeterà d’allora in poi Sanababìch ai suoi interlocutori e, come a voler meglio chiarire un concetto così estraneo alla realtà di quei montanari, mostrava le sue mani ancora impietrite nel gesto estremo di restare aggrappato al bordo della scialuppa.

È a loro che penso salendo verso la Cima di Medeglia, che ora intravvedo lassù con la sua croce impressa nel cielo. Ho attraversato boschi e pascoli intiepiditi dal sole, ho apprezzato la tranquillità e l’armonia del monte di Troggiano, costeggiato le trincee di Sùra Canàa, annusato genzianelle precoci e poetici narcisi, rimuginando però ad ogni passo che, una volta, i naufraghi eravamo noi e che non ce lo dobbiamo dimenticare quando oggi guardiamo, con scandalosa indifferenza, certe immagini che ci mostra la tivù.