Mi chiamo Cesarino, borbotta, fissando il foglietto su cui prendo nota del nome. Non è poi così strano per un «Biasca», penso. Anche se, a dire il vero, mi sarei aspettato piuttosto un «Ateo» o un «Attila» oppure un «Lenin», o ancora il nome di un qualche arbusto o un appellativo silvicolo, come l’«Oliveto», il maestro archivista, che ho incontrato un attimo fa fuori dalla sua cascina intento a trascrivere un plico di lettere con un’enorme macchina per scrivere elettrica (il tic tac del battito delle due dita mi ha seguito fin qui).
Cesarino compare ad una curva del viottolo, mi viene incontro a passo lento e si siede sul muricciolo di sasso, appoggiando pensieroso il mento sul bastone. Lo saluto e gli chiedo di parlarmi della sua valle. E lui, tò sarèt bè miscgia om tagliàn, mi fa, scrutandomi da sotto in su con due occhietti da furetto. Mi vien da ridere. No, a som miga un tagliàn, gli rispondo.
Sorvolando sull’approssimazione della mia trascrizione fonetica, quella domanda, me ne rendo conto oggi ripensandoci, è un distillato dell’essenza stessa della valle, il condensato di secoli di isolamento, di autarchia e diffidenza.
Sì, perché la storia della valle Pontirone è la storia di una terra di rifugio. È la natura che ha voluto così, facendola remota e selvaggia, intagliata profondamente nello gneiss e quasi invisibile dal piano. La Lesgiüna, il torrente che l’ha erosa completando l’opera dei ghiacciai, ne esce a stento. Basta andar lì a guardare, sul vecchio ponte che ne prende il nome, prima di Malvaglia. Vedi una pozza verde e poi solo roccia e ti chiedi come fa l’acqua a venirne fuori. E infatti, pare che in tempi remoti non ne venisse fuori, per niente. C’è voluto il diavolo in persona per creare un varco nella pietra dando libero sfogo al fiume, narra la leggenda, e sembra l’abbia fatto con una tecnica molto umana.
Individuata una piega nella muraglia, vi si appoggiò con i piedi e il fondo schiena e cominciò a spingere con tutte le sue forze. Dopo un po’, un’angusta fessura si aprì e la Lesgiüna, finalmente libera, sgorgò tutt’allegra avviandosi all’atteso appuntamento con il Brenno. Non si sa cosa volle in cambio l’artefice di quello sforzo erculeo, fatto sta che oggi ancora l’osservatore acuto può intravedere, impresse nella roccia poco sopra il pelo dell’acqua, le impronte dei piedi e del sedere di Belzebù.
Ci si arriva piuttosto facilmente, ora, in Val Pontirone. Certo, la strada non è delle più comode, si incrocia con difficoltà e spesso e volentieri devi ingranare la retromarcia e sperare che Dio te la mandi buona, ma, tutto sommato, la valle è diventata più accessibile. La carrozzabile, che serpeggia tra i boschi sopra Malvaglia, attraversa il primo nucleo, Pontironetto, o Sant’Anna, una manciata di case ancora affacciate sulla Valle di Blenio, poi s’infila nella stretta gola fino a Pontirone, chiamato anche San Giovanni, o semplicemente Val, nel dialetto locale, il villaggio principale.
Da lì, s’inerpica con stretti tornanti collegando le altre ville, Scirésa, Chievrèi, Fontana, Biborgh, con le loro tòure, le costruzioni in pietra e legno, chiara memoria d’architettura walser, e poi più su fino agli alpi di Sceng e di Cava.
Prima dell’apertura della carrozzabile, nel 1933, per arrivare quassù c’erano solo una mulattiera e ripidi sentieri, che lasciavano alquanto inorriditi i viandanti, che si azzardavano a percorrerli. Anche l’arcivescovo di Milano, fatto poi cardinale e santo, Carlo Borromeo, cacciatore di streghe e gran fustigatore del clero godereccio di quei tempi, in una delle sue visite pastorali nelle terre ambrosiane, nel 1570, si avventura in Val Pontirone. E ne rimane talmente sconvolto e agitato, da farsi pesantemente redarguire dai due vallerani, portatori della traballante portantina, che lo zittiscono e gli ordinano in malo modo di starsene seduto se non vuol finire ruzzoloni giù dal dirupo.
«Non so se ci ha messo piede anche quel suo cugino, Federico» – racconta Cesarino – «è lui che ha costituito la parrocchia di Pontirone nel 1607, perché in valle si viveva stabilmente, c’era più gente qui che al piano».
Ed è vero. Nel XVII secolo, quando Biasca, del cui territorio fa parte la val Pontirone, contava 421 abitanti, quassù ce n’erano 440. A quei tempi non ci si era ancora ripresi dalle conseguenze infauste della famosa Buzza, che nel 1515 aveva devastato la pianura fin giù al lago Maggiore, provocando centinaia di vittime, a cui si erano aggiunte quelle delle tre epidemie di peste, che avevano sconvolto in quei periodi la regione. E molti abitanti di Biasca si erano ritirati tra questi monti. Ma la val Pontirone, già da molto prima, era terra di rifugio per chi fuggiva da battaglie, saccheggi e pestilenze. Non che questo fosse un luogo di tutto riposo. Anzi. La soldataglia svizzera, all’epoca delle guerre con Milano, vi aveva fatto irruzione, bruciando case e razziando il bestiame, l’Inquisizione aveva perseguitato tante povere donne in odore di stregoneria, frane e valanghe non si contavano e nemmeno le alluvioni, come quella del 1799, che aveva distrutto la chiesa di Pontirone.
«A Biasca si scendeva solo a prendere il vino» – si sbottona Cesarino, fattosi più loquace – «lo portavano su le donne con la brenta. Ogni tanto qualcuna rotolava giù dal Foss. Come la povera Albina, madre di parecchi figli, che aveva inciampato ed era caduta ammazzandosi, nel settembre del 1921».
La comunità viveva in completa autarchia, con l’allevamento del bestiame e un po’ di campicoltura.
«Intorno all’abitato fanno corona brevi campicelli, ove maturano la segale, il lino, la canapa e la patata» scrive Luigi Lavizzari, che visita la valle nell’agosto del 1850, «laboriosi sono gli abitanti e abilissimi nell’arte del costruire, sull’orlo di spaventevoli balze, quelle strade pensili dette sovende e strusoni, che servono di celere veicolo ai tronchi quando da remote valli si spingono in seno ai fiumi e da questi ai laghi subalpini. Mentre gli uomini si dedicano a lavori siffatti nelle vicine valli a richiesta degli incettatori di legnami, le donne attendono alla cura del bestiame e alla raccolta del fieno silvestre in dirupi quasi inaccessibili*».
C’era anche la scuola, a Pontirone. La chiudono nel 1926, ma fino a pochi anni prima gli allievi sono ancora parecchi; 35 nel 1910, quando il comune di Biasca indice il concorso per una maestra, con la promessa di un onorario di 650 franchi annui e «l’alloggio e la legna …a carico del Comune».
Con l’apertura della strada carrozzabile, nel 1933, che rende più agevole l’accesso alla valle, quest’ultima, paradossalmente, inizia a spopolarsi.
Oggi è essenzialmente un luogo di villeggiatura per molti biaschesi, che hanno ristrutturato le vecchie dimore contadine, destinandole a nuova vita. Certo, qua e là, senso estetico, rigore architettonico e buon gusto lasciano un po’ a desiderare e non sempre le carte sono in regola. L’eco delle conseguenze di tutto ciò è storia più o meno recente, ma le vicende dei rustici testimoniano della volontà della gente di recuperare e valorizzare l’ingente patrimonio dell’edilizia rurale, affinché la vita in valle possa continuare a (r)esistere.
Resistenti, lo erano anche gli ultimi due abitanti stabili, che avevo incontrato in una tiepida giornata di febbraio alla fine degli anni Novanta. Felice e Giovanni Caprara vivevano tutto l’anno a Mazzorino, un’altra delle ville pontironesi, adagiata su un ampio terrazzo panoramico a millecinquecento metri di quota, una mezz’oretta di cammino sopra Fontana. L’erba secca del sentiero non si era ancora ripresa dal peso della neve, che a tratti lasciava sporadiche macchie bianco sporco nell’ocra del paesaggio.
Mazzorign mi era apparso dietro un velo di nebbia. Una quarantina di costruzioni, tra cascine e stalle, strette in un abbraccio solidale dettato dalla necessità di utilizzare con oculatezza lo spazio a disposizione. Tutt’attorno prati e campi e più su un bosco fitto di conifere scure. Un comignolo con un filo di fumo mi aveva indicato la meta come un evanescente waypoint.
Felice era vicino agli ottanta. Un viso affilato su un corpo magro che si perdeva nella stoffa ampia e pesante dei pantaloni militari. «Si può dire che ho fatto la vita quassù» – mi aveva raccontato – «Ero già qui con “la pòvra àva”. Adesso non c’è più scopo di tornare al piano».
E al piano, Felice scenderà solo per finire i suoi giorni nella casa per anziani. Più giovane di qualche anno, Giovanni aveva l’aria furba e perspicace, con due occhietti che brillavano come gocce d’acqua in una faccia rotonda. Era stato fabbro ferraio, poi nel 1973 era andato in pensione e si era ritirato a vivere a Mazzorino. Aveva messo in piedi una mezza officina. Al riparo di un semplice tetto in piode c’era una forgia e un’incudine, su cui batteva il ferro rovente riducendolo a lamine dalla sonorità cristallina, con cui costruiva ciòcc di vac e di chiavri, che vendeva quando gli capitava l’occasione. «Vengono a prenderle anche i tagliàn» – mi aveva detto – «sono amici, brava gente, ce n’è uno che ti darebbe il cuore».
Mi aveva mostrato la chiesetta voluta dai boràtt, i rinomati borradori pontironesi, abili costruttori di sovende, specie di toboga chilometrici su cui si facevano scivolare i tronchi. «Andavano in Calanca a lavorare, attraverso il Pass Giümela. Con il loro guadagno hanno costruito la chiesa. La porta gliel’abbiamo fatta noi, in memoria della nostra povera mamma».
Anche a Mazzorino si viveva stabilmente. Si allevava il bestiame, si coltivavano le patate, che venivano conservate nelle tonghe, profonde buche scavate nel terreno e chiuse con una pietra.
«Questi erano tutti campi» – aveva continuato a raccontare Giovanni, abbracciando con un ampio gesto ra Mota da Mazzorign, il gobbone ora ricoperto di prati a valle del villaggio. «Avevano la segale, per il pane, e il lino, con cui tessevano la stoffa per le lenzuola, che erano ruvide e dure come lamiere».
Sono ripassato da Mazzorino nel maggio di quest’anno, diretto al rifugio dell’alpe di Biasàgn. Una giornata sazia di sole e di azzurro, brillante e limpida da ferirti gli occhi, prati fioriti, un viavai di lucertole tra le vecchie pietre, il canto lontano di un cuculo, la terra fresca negli orti vangati da poco, un paio di cascine aperte e due o tre persone.
«Nelle settimane del picco della pandemia c’era parecchia gente, venuta a rifugiarsi quassù» mi dicono.
Giovanni non c’è più, nell’ottobre del 2016 è sceso da Mazzorino e non vi ha più fatto ritorno. È morto nel giugno dell’anno seguente. Sotto la tettoia, ci sono ancora la forgia e l’incudine, qualche attrezzo buttato lì alla rinfusa, un paio di racchette da neve antiquate appese al muro.
C’è da farsi venire il magone, penso, ma la val Pontirone vive e resiste e questo mi consola mentre riprendo il cammino. Intravedo il rifugio di Biasàgn, lassù, poco oltre i duemila metri, sovrastato dalla cresta che si allunga dal Pizzo Muncréch fino allo Strega. Davanti agli occhi, un panorama straordinario, con la vasta conca glaciale dell’alta valle, rigata dalle cascate, i pascoli di Sceng, il passo Giümela, ad oriente, e uno sgranare di cime che fanno il solletico ai Tremila, a meridione: il Piz da Termin, il Torent Alto e il Torent Basso, dal cui ghiacciaio, ormai esangue, a fine Ottocento la società Cristallina cavava il ghiaccio, portato al piano con una teleferica e spedito a Milano, a tintinnare bicchieri nei caffè dei Meneghini.
Nota
* Luigi Lavizzari, Escursioni nel Cantone Ticino, Armando Dadò Editore, Locarno 1992, pag. 320.