«È l’unico vizio che ho», borbotta Alfredo rovistando nelle tasche, da dove estrae un pacchetto giallo di sigarette. Ne prende una e l’accende. Aspira, alza il mento e butta fuori la prima boccata di fumo denso, uno sbuffo bianco come il nebbione che se ne sta sospeso, inquieto, sopra il passo del San Gottardo. «Faccio l’alpigiano qui da venticinque anni», dice. «Un quarto di secolo», aggiungo io. Detto così fa più impressione.
Alfredo Guscetti è il gestore dell’Alpe Cristallina, uno dei tanti che punteggiano la sponda destra della Valle Bedretto. La cascina del personale, il lungo stallone con la casera, la cantina del formaggio lì di fianco e poi i pascoli, che dal limite del bosco risalgono l’ampia val Torta.
Aspira e butta fuori, pensieroso. «A dire il vero ho iniziato a otto anni, a fare il bòcia, con mio padre. E quando cresci così, ci rimani attaccato all’alpe». Parla guardando lontano, di là dalla valle, dove una nuvolaglia soffiata dal nord si aggrappa alle cime e ha già sbocconcellato il pizzo Lucendro e il Ronggergrat, la lunga cresta che dal passo di Cavanna si dilunga verso l’Hüenerstock, le cui rocce nascondono vecchie postazioni militari collegate da un’incredibile mulattiera d’alta quota.
«I miei figli hanno scelto un’altra strada e li capisco. I giovani non vogliono fare questa vita – continua Alfredo – e nemmeno buona parte delle donne». Parliamo, lui seduto sulla porta della cascina, canottiera blu e il volto di una ragazza tatuato sul braccio, che subito scompare sotto una camicia quadrettata. «Da un po’ di tempo soffro il freddo», si giustifica mentre la indossa. Intanto, due escursionisti di passaggio chiedono di poter acquistare del formaggio e seguono l’aiutante bergamasco diretto in cantina. Un buon quarto di forma l’ho già infilato nello zaino anch’io. Squisito.
L’avevo incontrato per la prima volta nel 2006, l’Alfredo, una mattina di fine luglio traboccante di sole, con un incredibile cielo blu spalmato sopra le montagne. La stessa barba rada, ma un po’ meno grigia. Stava facendo il formaggio con la sicurezza di chi, quei gesti, li ha ripetuti giorno dopo giorno da una vita. Disteso il canovaccio sopra la caldaia fumante, l’aveva tenuto teso per un attimo aiutato da Adele per poi immergerlo assieme a tutte e due le braccia nel liquido caldo e ritirarlo gonfio di cagliata.
Oggi sto rifacendo la stessa strada di allora. Partito da Pesciüm ho risalito la sponda destra della valle a mezza costa. Arrivato qui, in quell’occasione, avevo imboccato il sentiero che s’infila su per la Val Torta verso il passo Cristallina, la capanna CAS e, al di là, la testata della Valle Maggia. Luoghi trafficati, ai nostri giorni, dal viavai di escursionisti e scialpinisti e, in un lontano passato, dai passaggi di cacciatori e raccoglitori di quarzo per la produzione del vetro o la fabbricazione di utensili e punte di frecce. Questa volta, però, fatte quattro chiacchiere con Alfredo, tiro dritto e proseguo verso l’alpe di Folcra e quello di Valeggia, per poi scendere a Ronco.
La chiamano la Strada degli alpi, quella su cui cammino respirando a pieni polmoni il profumo caldo dei fiori. È una sterrata che taglia il versante destro della val Bedretto, passando dai vari alpeggi distribuiti sul susseguirsi di terrazzi a una quota costante, tra i milleseicento e i millenovecento metri.
La storia dell’economia alpestre in Ticino sorprende per i suoi curiosi e, a volte, apparentemente inafferrabili aspetti che ne hanno segnato l’evoluzione. E la Val Bedretto non fa eccezione. Anzi, qui più che altrove ci si può rendere conto della straordinaria importanza che l’estivazione, con le sue transumanze e l’utilizzo stagionale dei pascoli montani, ha avuto fin dai tempi più remoti per il cosiddetto settore primario, costretto a fare i conti con un territorio esiguo, selvaggio e scarsamente produttivo.
La valle, forse per il suo starsene lì appartata, o per il suo trascurabile peso demografico e politico, ha suscitato a lungo gli appetiti e le aspirazioni colonialiste delle vicine comunità leventinesi, forti del loro privilegio di vivere sulla Via delle Genti, con i suoi proventi assicurati dal trasporto delle merci, ma rimanendo pur sempre società a beni limitati e, di conseguenza, particolarmente interessate a un’equa (per loro) spartizione delle magre risorse disponibili. E così, un bel dì di maggio del 1227, il Consiglio generale di Leventina ridistribuisce la proprietà degli alpi, assegnando buona parte di quelli della Val Bedretto alle vicinanze di Giornico, Faido e Chiggiogna, giudicate meno favorite nello sfruttamento alpestre. I bedrettesi rimangono così a bocca asciutta e anche le loro successive rivendicazioni per i diritti d’alpeggio non miglioreranno di molto la situazione. Ecco spiegato come mai, oggi ancora, l’alpe Cristallina appartiene al patriziato di Giornico, quello di Cruina alla Degagna generale di Osco e quello di Stabiello al patriziato di Cavagnago.
Altri ragguagli me li forniscono i pannelli Alpeggi senza confini in cui m’imbatto lungo la strada. Sono affissi ai muri delle baite e stanno a indicare il percorso che collega il Caseificio del Gottardo di Airolo al lontano Alpe Veglia, nell’alta Val Cairasca, in Piemonte, toccando il Passo San Giacomo e l’Alpe Devero, e di cui la nostra Strada degli alpi è parte integrante. L’itinerario è stato creato nell’ambito del progetto Interreg ProAlp I-CH, per lo sviluppo e la promozione della montagna, un’iniziativa di Piemonte, Vallese e Ticino nata nei primi anni Duemila e finalizzata a «valorizzare gli alpeggi e le loro condizioni di utilizzo… predisporre procedure comuni italo-svizzere per la valutazione degli interventi; favorire produzioni agro-alimentari autoctone, improntate alla qualità, compatibili con l’ambiente; incentivare sinergie tra sviluppo rurale e attività turistiche attraverso la polifunzionalità degli alpeggi».
Confesso di non essermi preso la briga di indagare se il progetto abbia prodotto qualche altro reale risultato, oltre al censimento degli alpeggi, l’apertura di un museo dedicato al tema all’alpe Devero e l’affissione di questi pannelli un po’ sbiaditi, ma tutto sommato utili all’orientamento dell’escursionista.
Sulla funivia per Pesciüm stamattina c’è poca gente, una manciata di turisti svizzero-tedeschi dall’aria un po’ stranita, forse per la mascherina d’obbligo che appanna gli occhiali da sole e solleva sospetti e occhiate sfuggenti come se in ogni vicino possa nascondersi un pericoloso untore. Un ragazzino ci gioca con la mascherina, prima di indossarla la prova sul muso del cane lupo, che non sembra apprezzare lo scherzo.
È sorprendente come quel rettangolino di carta o di stoffa appeso alle orecchie abbia un inquietante potere evocatore. Seppur immersi in una natura splendidamente rigogliosa e profumata, vibrante di canti di uccelli e voli d’insetti, in questo caldo inizio di luglio, è capace di ricordarti con apprensione che il nemico invisibile è ancora tra di noi, nonostante le cifre della pandemia in questi giorni in Ticino siano piuttosto incoraggianti.
È inevitabile, ci siamo ancora dentro con la testa e quando incontri qualcuno, presto o tardi, il discorso va a finire lì, al lockdown vissuto e superato bene o male, ai bollettini di guerra giornalieri, ai divieti attesi o subiti, alla consapevolezza degli «over 65» di essere diventati improvvisamente vecchi e indifesi. E poi incontri l’aiutante bergamasco di Alfredo. Un giovanotto sorridente, abituato a star dietro alle bestie, perché, a casa, suo padre ha un centinaio di mucche e lui una sorella che lo comanda a bacchetta.
Qui, sull’alpe Cristallina, ha ritrovato un po’ di serenità, dopo i mesi di paura trascorsi nell’epicentro lombardo della pandemia, con i morti lasciati a loro stessi, le sfilate di camion militari trasformati in carri funebri accompagnati dai rintocchi cupi delle campane.
Alfredo si accende un’altra sigaretta e sdrammatizza. «Il Covid ha ripopolato la montagna – dice – mai vista così tanta gente su questi sentieri. Sabato scorso saranno stati più di un centinaio a passare di qui». E cambiando discorso aggiunge, «questo è un buon anno per l’alpe, siamo saliti con le bestie il 20 di giugno, dieci giorni prima del solito. Se pensi che produciamo venti forme di formaggio al giorno, fai tu il calcolo…» conclude soddisfatto.
Allora riprendi il cammino e, dopo pochi passi, la bellezza del paesaggio ha il sopravvento e ritrovi la capacità di estraniarti, di scacciare i brutti pensieri e assaporare il piacere di vivere immerso nella natura. Un saluto frettoloso ai turisti che incontri sulla strada e ai molti ciclisti che ti sfiorano veloci sulla loro mountain bike.
Ogni tanto mi fermo e osservo il versante opposto della valle. Sul passo del San Gottardo stanno crescendo le torri bianche che sosterranno le pale eoliche, un luccichio di auto anima il biscione della Tremola, sui ripidi pendii sotto gli alpi di Cavanna e Pesciora si distingue la geometrica foresta di ripari, che protegge dalle slavine i villaggi sottostanti, e poi quel susseguirsi straordinario di vette ancora chiazzate di neve e coronate di sbuffi di nubi, il Pizzo Rotondo, il Poncione di Ruino, il Cassina Baggio e il Maniò, su su fino al Pizzo Gallina, che sovrasta il valico della Novena.
Sull’alpe di Stabiello Grande, una vecchia croce se ne sta lì solitaria, conficcata in una gobba del terreno, commovente testimonianza di devozione popolare. Più che un omaggio al Redentore, come lo saranno a partire da inizio Novecento quelle più imponenti innalzate sulle cime delle montagne, le croci erette fin dal Sedicesimo secolo in mezzo ai pascoli, su ne li monti come si annotava allora nei registri, spesso poco più di due legni inchiodati, esprimono nella loro sconcertante semplicità una richiesta di protezione per uomini e bestie e un segno di ringraziamento a Dio «per l’annata buona che è una grazia, o per l’annata grama che è una grazia non averla ricevuta peggiore» (dal romanzo di Plinio Martini, Il fondo del sacco, edizioni Casagrande, Bellinzona, 1973, pg. 19).
Dopo gli alpeggi di Folcra, il più alto della processione, e quello di Valleggia, uno dei pochi di proprietà del Patriziato di Bedretto, la strada scende zigzagando nel fresco del bosco di conifere verso il fondovalle, dove raggiungo Ronco giusto in tempo per rimettermi la mascherina e salire sull’ultimo autopostale della giornata, che mi riporta ad Airolo.