Non so se il ricordo sia veramente genuino o se il passare degli anni ne abbia scombussolato i pezzi, per poi lasciarlo sedimentare nella versione che mi è stata consegnata. Fatto sta che la Tita Fusi, oggi novantaquattrenne, mi ha raccontato che suo padre, il Genzi, un paio di giorni prima era salito con un collega sui monti di Ruscada per controllare la tubazione dell’acqua delle Officine di Bellinzona, il cui flusso era di molto diminuito. La trovarono spaccata in tre punti.
Si era fatto tardi e i due decisero di dormire lassù, in una cascina. Il Genzi racconterà poi che, durante la notte, fu un susseguirsi di tonfi inquietanti, di scricchiolii, di rumori di sassi che rotolano. Il mattino seguente, cercarono di convincere le ultime due persone rimaste sui monti, una vecchia capraia e suo figlio, ad andarsene da quel posto. Non era stato facile persuaderli. Con le belle e calde giornate, che un’estate eccezionale aveva lasciato in eredità a quell’inizio d’autunno, avrebbero voluto rimanersene nella loro baita, almeno fino a quando il vento del nord non avesse portato loro il profumo della prima neve. Per finire si erano decisi a scendere al piano, lasciando lì le capre. D’altronde non erano sole, pare che in quel momento ce ne fossero più di duecento sparse su quei monti.
Pochi giorni dopo, quello che gli esperti prevedevano da alcuni anni era successo.
Il 2 ottobre 1928, alle 15 e 25, dopo la lunga serie di piccole frane delle settimane precedenti, all’improvviso il reticolo di crepacci, che da tempo si dilatava sfregiando un’ampia parte del pendio settentrionale del Motto d’Arbino, a millequattrocento metri di quota, si era aperto in un’unica immensa voragine e la montagna si era messa in moto, sprigionando dalle sue profondità un cupo boato, che era rimbalzato da un versante all’altro della Valle di Arbedo, piombando come una valanga sul paese e la sua gente, che da giorni viveva con il cuore in gola.
Una vasta porzione del Motto d’Arbino, tra la Val Taglio e la Val Pium, due laterali della sponda sinistra della Traversagna, era scivolata verso il basso trascinando con sé il bosco di faggi, la strada militare che saliva verso il Gesero e le sedici cascine dei monti di Chiara, Monda e Ruscada, cancellati per sempre dalla carta geografica.
«Una visione spaventevole si parò ai nostri occhi. Vedemmo il “Sasso Marcio”, monte boscoso in parte, muoversi dalla cima alla base, sgretolarsi, sfasciarsi e cadere con grande fragore. Vedemmo i dossi laterali del monte stesso scendere, sdrucciolare a grandi strati con alberi isolati e anche zone di bosco intiere, per poi scomporsi più in basso e mescolarsi col terriccio e coi macigni. Uno strano rombo e scricchiolio di alberi e radici che si spaccavano accompagnava il terrificante spettacolo».
Così raccontò l’accaduto al «Popolo e Libertà»1 uno degli operai delle Officine saliti a riparare la conduttura dell’acqua e riusciti a fuggire un attimo prima dello scoscendimento.
Il materiale franato, oltre sessanta milioni di metri cubi di terra, sassi e legname, aveva riempito la valle sottostante, lasciando un’immane cicatrice sul versante della montagna, come se un gigantesco essere infernale ne avesse staccato un grosso boccone con un morso.
La si vide solo il giorno seguente, la ferita, animata da un incessante rotolare di macigni, perché fino a sera inoltrata tutta la valle era stata invasa da una fitta cortina di polvere.
Se li ricordava anche mia madre, allora giovinetta, il tremendo boato e quel fantasma bianco, che si era levato contro il cielo riversandosi sui boschi, i prati e le case del paese. Stava tornando dalla vendemmia (all’epoca era di almeno un paio di settimane più tardiva di adesso) in una vigna che la famiglia coltivava accanto alle cave di Castione, ed era corsa a casa spaventata.
Nei giorni seguenti furono in molti a salire sul versante opposto della montagna per vedere con i propri occhi quello che era successo: il sindaco Brunetti, gli ingegneri che da anni tenevano il fenomeno sotto controllo, agenti di polizia, giornalisti e parecchi curiosi.
Intanto, nella valle di Arbedo, un vasto lago si era formato dietro lo sbarramento, alto una sessantina di metri, creato dalla frana, e per un lungo periodo resterà motivo di preoccupazione. Il Motto d’Arbino tratteneva ancora una mole impressionante di materiale, ben superiore a quello franato, la cui caduta avrebbe potuto provocarne la tracimazione. Poi, con il passare del tempo, la paura è andata via via scemando, la gente si è abituata alla presenza del lago, apprezzato dai pescatori, e la ferita del Motto d’Arbino si è pian piano rimarginata, vestendosi di boschi. Dapprima si sono fatte vive le specie pioniere, i timidi salici selvatici e le betulle, che hanno colonizzato gli anfratti tra i macigni, poi, sono spuntate le più tenaci conifere, i larici, gli abeti bianchi e rossi, che ne sono diventate le essenze egemoni. Ora, tutta l’ampia area della frana è una riserva forestale, mentre la montagna, il cui scoscendimento in quell’ottobre del 1928 aveva fatto impazzire i sismografi di Zurigo come se si fosse trattato di un violento terremoto, è sempre inquieta, di tanto in tanto perde pezzi, ed esibisce a futura memoria una lunga cicatrice indelebile sul lato che scende nella val Taglio e altri segni di franamenti recenti verso quella d’Arbedo.
Non ci salivo da un po’, al lago d’Orbello. Qualcuno mi aveva detto che la sua presenza si era fatta più discreta, la vegetazione cresciuta tutt’attorno l’aveva stretto in un caloroso abbraccio e la Traversagna, con il suo incessante fluire, ne stava colmando il fondale di sedimenti, contendendolo alle trote. E così oggi sono voluto tornare a fargli visita.
Il sentiero, lasciato Arbedo, si alza contorcendosi sul versante destro della valle attraverso la selva castanile, di tanto in tanto incrocia la strada forestale per il Gesero, che ha sostituito la vecchia carrabile militare distrutta dalla frana.
Dopo un’ora e mezza di cammino, compaiono le due cascine del monte Orbello, oltre le quali il viottolo scende, abbassandosi di un centinaio di metri, fino a raggiungere il lago, che già s’intravvede là sotto oltre la cortina di alberi ancora semispogli. Prima di avviarmi, mi soffermo a decifrare sul lato opposto della valle i segni ancora visibili del grande scoscendimento. Se ne può stimare chiaramente la vastità, grazie al bosco di conifere che lo ricopre, ben distinto dalle faggete tutt’attorno.
Tre lunghe colate di detriti testimoniano di altrettanti franamenti recenti, mentre della congerie di massi caduti nel 1928 si vedono appena alcuni grossi macigni, che sovrastano le chiome degli alberi.
Apparivano così già una ventina di anni fa, quando me li aveva indicati il Fridolino Fenazzi, che mi aveva accompagnato a Orbello per raccontarmi ciò che ricordava di un’altra storia, quella del Big Swing, la Grande altalena, il bombardiere americano venuto a schiantarsi nel cuore della frana, di cui avevo poi ricostruito la vicenda in tre documentari per la RSI.
È il 7 febbraio 1945. L’ultimo lungo inverno di guerra sta lentamente scivolando via e di lì a pochi mesi si potrà finalmente mettere la parola fine al secondo conflitto mondiale. Intanto sul fronte italiano gli Alleati stanno incalzando le truppe nazifasciste, che a poco poco si ritirano verso nord. La nostra gente, toccata solo indirettamente dal conflitto, ma profondamente provata da sei anni di guerra, vive momenti di angoscia. Si combatte ormai a ridosso dei nostri confini, dove giungono ondate successive di profughi e di sbandati, e quel 7 febbraio del ’45, The Big Swing, un bombardiere B25 americano, partito dalla base di Solenzara, in Corsica, dopo aver sganciato il suo carico di bombe nel Trentino, colpito dalla contraerea, fugge con un’ala squarciata, entrando nel nostro spazio aereo. Sorvola il piano di Magadino e il Bellinzonese, per poi andare a schiantarsi in valle di Arbedo.
I sei membri dell’equipaggio si salvano gettandosi con il paracadute. Il primo a lanciarsi è Max, Maxwell J. Lasskow, che atterra su un mucchio di letame a Sant’Antonino. Avrò il piacere di incontrarlo cinquant’anni dopo, nel 2005, grazie alle ricerche di una coppia di appassionati dell’aviazione, Manuela e Christian Gloor, che hanno approfondito l’argomento2 e invitato in Ticino Max, meccanico e mitragliere della torretta superiore, il più giovane dei membri dell’equipaggio (nel 1945 aveva appena vent’anni) e uno dei pochi ancora in vita.
L’ultimo a lasciare l’aereo è invece Evo J. Petruzzi, operatore radio e mitragliere laterale, che si paracaduta poco prima dell’impatto.
Ed è proprio lui, che Fridolino e suo cugino trovano il giorno seguente, in mezzo alla neve, poco sotto i monti della Taiada.
«Mio cugino, mi fa, guarda c’è un uomo laggiù» racconta. «Mi giro e lo vedo, aveva una pistola. Mi dico, adesso che cosa faccio? Allora mi sono avvicinato e quando gli sono arrivato a due passi, si è alzato e mi ha abbracciato».
È un lungo e toccante racconto, quello che mi ha confidato con emozione Fridolino, evocando l’incontro con l’Americano riconoscente, rincuorato dallo scoprire di essere finito in Svizzera. L’abbiamo portato sul monte, dove c’era la polizia che l’ha preso in consegna per condurlo alle Pretoriali, ma lui ha voluto che lo accompagnassi anch’io.
Fridolino era poi tornato con il cugino sul luogo dell’impatto. C’erano rottami dell’aereo sparsi ovunque, incastrati tra i sassi della frana. Loro hanno preso una ruota. L’abbiamo fatta rotolare fin giù al lago e poi portata a casa. Ma l’indomani, i militari gliela confischeranno. Peccato, con la fatica che avevamo fatto.
Negli anni seguenti, ci fu un bel daffare per la gente del luogo, impegnata in una sorta di corsa all’oro, per impossessarsi di un ricordo del Big Swing, il bombardiere venuto da lontano a schiantarsi sulla montagna alimentando leggenda e fantasia.
C’erano rimasti ben pochi resti, infatti, sulla frana, quando ci sono salito, alla fine degli anni Novanta, guidato da Guido Baggi e Mario Bolgiani, che ne conoscevano ogni anfratto fin da bambini.
Se non sei pratico, rischi di rimanerci in eterno, avevo pensato, vedendo quell’intrico di alberi cresciuti alla rinfusa, tronchi spezzati, garbugli di rovi artigliati ai massi, che si erano impossessati del posto rendendolo quasi impenetrabile. Qua e là, tra quella confusione, spuntavano frammenti di alluminio, pezzi di metallo fuso, brandelli di uno strano tessuto incastonato di piastrine d’acciaio. Sono parte della corazza della carlinga. Mi spiegò Guido. Prendevamo a sassate i vetri, ma non si spaccavano, perché era plexiglas, poi c’erano i cuscinetti sigillati, le viti a stella... Tutte cose che all’epoca nessuno aveva mai visto qui da noi.
In quell’ultimo scorcio del conflitto, la gente del paese si era trovata così tra le mani materiali sconosciuti e promesse di nuove e misteriose tecnologie. In poche parole, il loro futuro.
Intanto sono arrivato al lago. Sembra quasi impossibile, che una frana abbia creato un luogo così bucolico, specchio di boschi e di montagne spruzzate di neve, sfarfallii di sole sull’acqua appena increspata e un paio di pescatori sonnacchiosi in attesa di un guizzare di trote.
Note
1. Cfr. «Popolo e Libertà», 9 ottobre 1928, pag.2.
2. Christian & Manuela Gloor, The Big Swing, il bombardiere d’Arbedo, Cureglia 2011 (Edizione e distribuzione in proprio degli autori).
Il Lago d’Orbello – Itinerario
Partenza: Arbedo (290 msm)
Il sentiero, ad Arbedo, parte in Via alle cascine, vicino al ponte Traversagna, sulla sponda destra del fiume. È segnalato in bianco rosso e da un cartello giallo.
Chi volesse guadagnare qualche metro, può iniziare il percorso in cima a Via Aragno (330 msm), dove parte una stradina, che porta all’acquedotto comunale in località I Cassìnn (chiusa da una barriera). Il sentiero sale nel bosco, incrociando la strada per il Gesero in alcuni punti. Sopra La Gra dal Guèrsc, si prosegue sulla carrozzabile per alcune centinaia di metri e poi si riprende il sentiero, che dopo un po’ sbuca vicino al monte di Orbello.
Orbello: ( 779 msm)
Si attraversa Orbello, passando tra le due cascine, da lì il percorso inizia la discesa verso il lago, dapprima con una leggera pendenza, poi, sotto una parete rocciosa (da dove si gode una bella vista sul lago), scende in modo più deciso. Arrivati a Motto del Torno, un cartello di legno indica il sentiero, piuttosto ripido, che porta al lago.
Arrivo: Laghetto d’Orbello (725 msm)
Dislivello: ca. 500 metri
Lunghezza totale del percorso: ca. 8 km
Tempo di percorrenza per la salita: poco più di 2 ore.
Difficoltà: T2
Il percorso non presenta difficoltà particolari, si tratta comunque di un sentiero di montagna, per cui si devono indossare scarpe adatte. Tra l’andata e il ritorno l’escursione è piuttosto lunga.
Chi volesse accorciarla, può salire in auto fino al monte di Orbello e da lì, in pochi minuti scendere al lago.
La strada è chiusa da una barriera, che può essere aperta inserendo Fr. 5.– in monete nell’apposita cassa. Ricordarsi che la stessa somma dovrà essere «sborsata» anche al ritorno.
Per i più allenati, da Motto del Torno, un altro largo sentiero entra nella valle per poi salire attraverso un bel bosco di faggi fino ai Monti di Cò (ulteriori 300 metri di salita).
Il Lago d’Orbello
Un’escursione al laghetto generato dalla frana del Motto d’Arbino, nel 1928
di Romano Venziani