«Ah, al Gridòn! Par nüm l’era quaicoss da straordinari». S’illuminava tutta, la maestra Mariuccia, quando parlava del Ghiridone o meglio, del Gridone, come i Brissaghesi (e l’ufficialità di Swisstopo, che l’ha scritto nero su bianco sulle cartine) chiamano la montagna che li guarda dall’alto specchiandosi nel lago.
«Sentivamo parlare del Gridone, ma non c’eravamo mai stati». Così ricordava una quindicina d’anni fa, Mariuccia Zanini, la salita in vetta in occasione dell’inaugurazione della croce. Era il primo di agosto del 1934, un mercoledì di festa. Il giorno prima, violenti temporali avevano messo in forse l’avvenimento, poi però, nella notte, il cielo si era rischiarato improvvisamente, promettendo un’aurora e una giornata indimenticabili.
«Verso le tre del mattino annunciano “partenza”, era ancora scuro e la mia mamma ha preso la lanterna a petrolio. Si vedeva il serpentone illuminato della gente che saliva. Quando siamo arrivati in Gridone, don Galli ha celebrato la messa, ma c’era poco da muoversi, perché eravamo così in tanti sulla cima».
Pensando a Mariuccia, mi torna in mente una frase dell’alpinista inglese Robert Macfarlane, «le montagne sono mere contingenze della geologia, tutte le qualità emotive che possiedono vengono loro assegnate dalla nostra immaginazione…» (v. bibliografia n. 1).
Come dire, le montagne se ne stanno lì nella loro parvenza di immobilità, esistono e basta, siamo noi che le popoliamo con la nostra fantasia, la nostra storia, le nostre emozioni, i nostri ricordi. Per Mariuccia il concetto di montagna si riassumeva in un nome, il Gridone, quella cima lassù, lontana ma famigliare, a cui, quel giorno d’agosto del Trentaquattro, avevano conferito un valore simbolico e religioso, piantando sulla cima rocciosa la grande croce, che svetta dall’alto dei suoi otto metri stendendo un’aura di sacralità su tutta la montagna. Quell’aerea rupe, su cui il naturalista Luigi Lavizzari era salito nel 1860, volgendo l’occhio «con ansia, quasi impaurito dall’aspetto degli abissi» che la circondano, ha suscitato molteplici sentimenti in chi è passato di lì.
Un giorno di gennaio del 1944, Angela Maria, figlia dell’ex ambasciatore italiano a Berlino Dino Alfieri (ormai inviso dai suoi stessi camerati fascisti, che lo avevano condannato a morte costringendolo a fuggire in Svizzera), cerca anch’essa la salvezza nel nostro paese. Partita dalla val Cannobina con la madre e alcuni passatori, raggiunge sfinita il confine che corre sulla linea di cresta del Ghiridone.
«Impossibile dire cosa passa per la mente e per l’anima in quei momenti – scriverà più tardi – solo una grande leggerezza e chiarezza davanti a sé e la sensazione sempre più limpida, che davanti a qualche cosa di estremo, si saprà avere subito l’estrema decisione, qualunque essa sia: piuttosto che essere presa mi sbatto giù dalla montagna» (bibliografia n. 2).
Per la giovane Angela Maria, così come per gli altri esuli che hanno scelto quella non facile via di fuga durante gli ultimi anni della guerra, la montagna è libertà e salvezza, un sentimento profondo di leggerezza e sollievo oscurato solo dalla tristezza dell’aver dovuto abbandonare la propria patria e dall’incertezza del futuro.
E che dire degli sfrosìtt, i contrabbandieri, i quali, fino agli anni Sessanta del secolo scorso, hanno calpestato l’intrico di sentieri che ricama i contrafforti del Ghiridone. Povera gente mossa dal bisogno, che sfidava i pericoli della montagna per quei quattro soldi che gli rendeva ogni viaggio. Per questi «frontalieri della bricolla», il Limidario, come lo chiamano al di là del confine, era il «luogo di lavoro», il terreno su cui mettere in atto la loro sfida, spesso impari, con la Finanza e con le guardie di confine elvetiche a volte più inclini a chiudere un occhio. Alla montagna erano legati da una sorta di strano rapporto economico, che gli permetteva di integrare i magri guadagni ricavati dalla coltivazione dei campi, dall’allevamento di qualche bestia o dal lavoro di manovale a tagliar legna o a tirar su muri.
Saranno passate anche di qui, quel giorno d’agosto del Trentaquattro, le liete comitive di fedeli, illuminate dal tremulo «chiarore di lanterne a mano; fantastico aspetto di lucciole vaganti per la montagna nel silenzio profondo della notte». (bibliografia n. 3)
Me la immagino, la scena, mentre m’incammino sul sentiero che, da Mergugno, sale verso Pislone, il vecchio alpe Arolgia, la capanna Al Legn e, più su, la cima del Ghiridone.
Accanto all’imbocco della via, un cartello informativo spiega al viandante a digiuno di cognizioni botaniche le particolarità del Bosco sacro di Mergugno, «un prezioso e unico monumento vegetale che arricchisce e nobilita la natura del Ticino». Se ci passate tra giugno e luglio, capirete il perché di quest’affermazione di Alessandro Focarile (bibliografia n. 4), entomologo ed ecologo, che i lettori di «Azione» ben conoscono. In quei mesi, il bosco si accende di una sorprendente luce gialla, innumerevoli grappoli di infiorescenze color oro pendono dagli alberi in una vibrante cascata. Sono i fiori del maggiociondolo alpino, che inglesi e tedeschi chiamano, con un’azzeccata immagine, Pioggia d’oro (Golden Rain, Goldregen). È un relitto botanico, il maggiociondolo, arrivato fino a noi dalla profondità del tempo, quando le condizioni climatiche erano più calde e umide. Ed è uscito indenne dal fluire dei millenni, senza subire modificazioni genetiche, forse per la sua natura di pianta velenosa, tossica dalle foglie ai fiori, dalla corteccia al legno, fin giù nel suo segreto reticolo di radici.
In passato ricopriva aree estese delle Alpi, mentre oggi si trovano qua e là solo gruppuscoli di esemplari. Per questo, il bosco di Mergugno, che copre una superficie di trentacinque ettari, è una rarità, un gioiello forestale unico su tutto l’arco alpino, già riconosciuto come tale da generazioni di brissaghesi, che l’hanno definito sacro, pur non ricoprendo esso una funzione protettiva.
Oggi dovrò fare a meno di una doccia corroborante sotto la pioggia d’oro. Gli alberi di maggiociondolo non sono ancora spogli, ma trattengono le ultime foglie ormai brunite e accartocciate, che al primo sbuffo di vento se ne voleranno via, come hanno fatto mesi fa i grappoli di fiori dorati. E quando leggerete queste righe saranno sotto la neve.
Il bosco, che il sentiero risale con ampi tornanti, offre altre e intense sensazioni visive. Faggi monumentali, un tempo «meriggio estivo», rifugi d’ombra per il bestiame, allungano verso il cielo i loro robusti rami grigi, avvolti da nuvole di foglie sorprendentemente verdi per la stagione. L’intrico della vegetazione è macchiettato del rosso arancio del sorbo degli uccellatori e graffiato dal bianco sporco dei tronchi di betulla, poi, più su, bassi arbusti di ontano liberano lo sguardo, che si dilata sulle montagne tutt’attorno e sul lago.
La vegetazione si fa sempre più rada e un tappeto d’erba smunta ricopre il vecchio alpe Arolgia. In mezzo, come relitti grigi, i resti diroccati delle baite. Una sola è stata rimessa in sesto, con il tetto rifatto. In un primo tempo si pensava di costruire qui una capanna alpina, poi però, il gruppo promotore, gli Amici della montagna affiancati dal Patriziato di Brissago, ha preferito un posto più soleggiato e panoramico, così negli anni Novanta il rifugio è sorto un po’ più su, sul terrazzo chiamato al Legn. Alzando lo sguardo, lo si intravvede, con la bandiera svizzera che svolazza appena in cima al pennone.
Domani è l’ultimo giorno d’apertura e il simpatico confederato, uno dei tanti guardiani volontari, è ormai pronto a sbaraccare e scendere al piano. Tutto allegro, mi scodella il minestrone con un largo sorriso e mi stuzzica le papille gustative con il miraggio di un ottimo formaggio e pane e salame, che assaporo ammirando il paesaggio.
Manca poco più di un’ora di cammino per la vetta del Ghiridone. Dopo la Bocchetta di Valle, il sentiero si arrampica sul crinale che scorre come un’onda increspata verso la cima. Sul lungo costone vistalago passo accanto alla Caldera, una sorta di antico tempio azteco, che si alza contro il cielo. Se ne sta lì dal 1901, quando i ricercatori del Politecnico di Milano, grazie a una convenzione italo-svizzera, l’hanno edificata installandovi una stazione di misurazioni pluviometriche.
«È la zona più piovosa di tutta la Svizzera, questa». Mi aveva raccontato, la prima volta che sono salito quassù una quindicina di anni fa, Maurizio Pozzorini, l’allora presidente degli Amici della Montagna.
«Trovarsi qui con un temporale è la cosa meno augurabile» aveva aggiunto.
Mi era venuto in mente, l’avvertimento di Maurizio, qualche anno dopo, durante una notte di luglio al rifugio Al Legn, quando fuori infuriava uno stratempo da far paura con un cielo nero squarciato da raffiche di fulmini, che buttava giù cascate di grandine. E noi, lì, incollati ai vetri delle finestre a guardare i chicchi grossi come prugne, che si ammonticchiavano ricoprendo il paesaggio con una coltre bianca spessa una spanna.
In un secolo di vita, ne ha visti di stratempi, la Caldera, e chissà quanti fulmini l’avranno presa di mira a giudicare dallo stato pietoso in cui era ridotta prima del restauro del Duemila ad opera degli Amici della Montagna. Ora ha ritrovato la sua funzione originaria, con l’inserimento di un nuovo pluviometro, che viene vuotato in autunno fornendo preziosi dati statistici ai servizi di Meteosvizzera.
All’improvviso, il crinale ha un sussulto e si alza in una cuspide ricoperta d’erba secca e roccette, la vetta del Ghiridone, con la grande croce proiettata nel cielo.
L’idea di innalzarla proprio quassù era venuta a don Augusto Giugni, prevosto di Intragna, nel 1933, in occasione della celebrazione dell’Anno Santo Giubilare straordinario voluto da papa Pio XI.
Trasportata pezzo dopo pezzo su cadole e gerle da uomini, donne e giovani dei villaggi della regione, la croce sarà inaugurata solo l’anno seguente, perché «i due parroci vigezzini che seguivano il progetto – mi aveva raccontato Maurizio – sono portati via uno dopo l’altro dalla difterite».
Restaurata e vestita d’argento brillante nel 1966, la croce viene poi ridipinta negli anni Novanta con questo strano color arancione. E Maurizio ne sa qualcosa.
«Di ritorno dall’America – mi aveva spiegato – mi son preso a San Francisco il colore del Golden Gate e l’ho utilizzato per ridipingere la croce. Questo rosso-arancio, con il bruno e verde delle cime e con l’azzurro del cielo, le conferisce un tono particolare».
E non si può dargli torto. Il ponte californiano l’hanno dipinto proprio così per vederlo meglio nella nebbia.
Erano altri tempi. Vi vedo male, oggigiorno, fare il check in presentandovi con un bidone pieno di vernice. E, di fronte alla perplessità dell’impiegata, spiegarle che vi serve per dipingere una croce piantata in cima ad una montagna.