È una mattina di luglio, l’uomo entra nel vagone rovente e sovraffollato della metropolitana reggendo un letto da campo in una mano, una Bibbia aperta nell’altra. Poi appoggia il letto per terra e comincia a leggere da un foglietto: «Vivo sulla strada da tre mesi, undici giorni e ventidue ore. Prima lavoravo come trasportatore ma ora ho un problema alla schiena e non posso più fare niente». Conclude con la lettura di un salmo dalla Bibbia e passa tra i viaggiatori con un bicchiere di plastica: «Ogni cosa aiuta, per favore». Qualcuno gli offre una bottiglietta d’acqua, due distinte signore gli allungano un dollaro ciascuna. A un’altra fermata della metro salgono dei ragazzi che fanno hip hop acrobatico sui pali del vagone e un secondo mendicante vestito con un sacco, un cartello di cartone al collo, le scarpe bucate; anche lui legge un salmo dalla Bibbia, vuol dire che funziona.
È stato questo il mio primo impatto con New York. Sono qui per un corso di fotografia e per contattare gallerie d’arte, ma prima devo trovare il modo di guadagnarmi da vivere. Oltretutto, in un momento di fretta, sbaglio codice e mi faccio ritirare la carta di credito da un bancomat, senza più la possibilità di ottenere denaro contante.
Mi guardo in giro. D’estate qui si vive sempre all’aperto: fuori a cena, fuori per il cinema, fuori per i concerti. Parecchi sono fuori anche nel modo di vestire. Chi viene a New York spesso vuole uscire dall’ordinario, innovare, mostrare un atteggiamento eccentrico verso la vita; esibire un livello di libertà molto alto, se solo non fosse così esteriore.
Comincio a cercare un lavoro. Chiedo ad amici che risiedono a New York se hanno bisogno di una baby-sitter, ma tutti sono già a posto. Dog-sitter allora? Anche qui niente. In rete le uniche offerte di lavoro vanno dal rappresentante di orologi al pasticciere di notte, all’estetista, ma non credo di essere capace. D’altronde l’economia ristagna. In compenso, da quando il terrorismo fa paura, il NYPD (New York Police Department) assume ottocento nuovi poliziotti ogni sei mesi. Qualcuno cerca «Pretty girls with pretty feet» per party estivi, le foto mostrano ragazze di origine asiatica e sudamericana con reggiseni leopardati, lascio perdere subito.
Alla fine finisco a lavare le verdure in un ristorante all’angolo, due ore ogni pomeriggio. Poi accetto la proposta di un amico interessato a lezioni private di italiano. È argentino con un nonno originario della penisola e vorrebbe chiedere la cittadinanza italiana. Intanto fa il traduttore di contenuti per Facebook. Resta incollato al computer dalle 8.00 alle 18.00, mangia pollo e beve mate. È un alunno diligente, dopo le nostre lezioni si appende in bagno le coniugazioni dei verbi e le ripassa spazzolandosi i denti. In tutto racimolo centocinquanta dollari alla settimana, un livello di sussistenza davvero minimo in una città così cara.
Sono finita a dormire in un quartiere messicano, ai confini con il quartiere arabo della periferia estrema di Bushwik. Ho una microscopica stanzetta per un mese soltanto nell’appartamento di una ragazza messicana che lavora per una televisione cattolica. Altri se la passano anche peggio di me. New York è una città di broker, di artisti ma anche, sempre più, di senzatetto. In ogni angolo della città e lungo i marciapiedi è frequente incontrare qualche homeless, i compagni di quelli che ho visto il primo giorno; le associazioni di volontari cercano di offrire «almeno un sorriso al giorno», come dice un ragazzo che si avvicina a una giovanissima senzatetto, offrendole un caffè all’angolo di Union Square.
I miei progressi nel mondo del lavoro sono minimi: è difficile assumere uno straniero senza permesso di lavoro, nessuno si vuole esporre a possibili sanzioni. Alla fine riesco a lavorare per qualche settimana in un negozio di gioielli: dalle 13 alle 17, senza dare troppo nell’occhio, aiuto una commessa californiana nel reparto vasi e argenti. Alcuni scontrini arrivano a diverse migliaia di dollari, ma qui è normale.
In questo modo trovo da mangiare e un posto dove dormire anche per il secondo mese. Passo il mio tempo libero facendo interviste e fotografie alle persone che mi sembrano interessanti. Dico loro che sto preparando un servizio giornalistico, ma forse è solo una scusa per ritrarre i personaggi di questa città incredibile.
A New York non conta il percorso ma il punto d’arrivo: scalare i vertici sociali, scrivere un libro, produrre un disco di tendenza, va bene tutto purché abbia successo. Ciò che sto imparando giorno per giorno lungo la strada – la sofferenza, l’amore, la tenacia – non sembra interessare a molti. Forse è solo apparenza, mi dico. Forse per scalfire questo strato di cinismo bisogna restare qui a lungo, entrare nelle case, abitare nei cuori delle persone. Ma io non ce la faccio. Sarà che vengo da una piccola città tra le Alpi, ma dopo due mesi sento la mancanza della natura, la puzza di gas diventa insopportabile, il rumore continuo dei condizionatori mi sembra un frastuono assordante.
L’ultima notte resto in piedi fino alle sei di mattina e solo allora, alle prime luci dell’alba, New York si palesa in tutta la sua bellezza: lenta, silenziosa e amabile come una signora appena svegliata.