«Distesa là dove il dragone si raccoglie e la tigre si accuccia, in una bella posizione voluta dal cielo, merita d’essere la dimora dei re». Così il geomante Le Quy Don descrisse Hue diversi anni prima che divenisse la capitale del Vietnam, nel 1805. Da allora la città è stata uno dei maggiori centri artistici e culturali del Paese.
Siamo al centro della «Route mandarine», la via coloniale che collega il Vietnam da nord a sud. Hue sorge a una dozzina di chilometri dal mare, quasi adagiata ai piedi della Catena Annamitica. Le scorre accanto il Fiume dei profumi, il più amato dai poeti vietnamiti, così chiamato perché un tempo vi passavano barche cariche d’incensi.
L’antica città di Hue è un paesaggio spirituale, in primo luogo naturalmente per il complesso monumentale della cittadella e le tombe imperiali, patrimonio dell’umanità Unesco. Ma ovunque, anche al di fuori dei luoghi più famosi, si coglie un equilibrio tra uomo e natura che è espressione dell’ideale estetico asiatico, ma anche dei principi di accordo cosmico che hanno sovrinteso all’impianto urbano. Non a caso l’etimologia di Hue significa sia «pace» sia «armonia».
È con questo spirito che da Hue si parte alla ricerca di nuovi paesaggi. Seguendo il Fiume dei profumi si raggiunge la laguna alla sua foce. Qui il Vietnam riappare com’era sino a pochi anni fa, prima dell’avvento del Doi Moi, il rinnovamento economico e sociale che ha trasformato questo Paese in una delle «tigri asiatiche».
La laguna in realtà è più simile a un canale parallelo al mare, si allarga per circa settanta chilometri tra due sistemi di dune e si moltiplica in una serie di bacini. Tutt’attorno si apre un paesaggio di risaie, villaggi di pescatori, grandi spiagge deserte, piccole pagode nel verde, sentieri.
I ristoranti sulla spiaggia propongono tutti lo stesso piatto: gamberi in muoi tieu chanh, salsa profumata di sale, pepe e lime. Sono il luogo perfetto per meditare su un ritrovato ordine tra uomo e ambiente. Sul finire degli anni Novanta del secolo scorso, infatti, la pesca stava uccidendo la laguna: una diffusione indiscriminata dell’acquacoltura aveva provocato una diminuzione del pescato e della biodiversità, con conseguente degrado ambientale e sociale. Poi, con l’aiuto della FAO, è stato realizzato un piano di gestione integrata della laguna che ha ottimizzato i sistemi di pesca, ridotto l’impatto ambientale e aumentato al tempo stesso la produzione. «La vita è migliorata» commenta Luong Vinh, vicesindaco di un villaggio di pescatori. «All’inizio eravamo un po’ diffidenti: è difficile abbandonare le tradizioni. Adesso abbiamo capito che ne stiamo creando altre, per i nostri figli».
Nella Laguna di Hue il mondo dei morti contende gli spazi a quello dei vivi. Necropoli, cimiteri, vere e proprie «città dei fantasmi» appaiono come miraggi tra le dune in uno scintillio policromo. Piccoli sepolcri e altari dedicati al culto degli antenati si alternano a imponenti mausolei di famiglia, gli Ho, che al profano ricordano antiche ville nobiliari. In realtà sono tutte costruzioni moderne che rielaborano l’antico stile delle tombe imperiali della dinastia Nguyen, a loro volta ispirate all’architettura cinese della dinastia Ming, in una versione quasi pop, disneyana, ma anche con influssi che vanno dall’art déco al palladiano.
Ugualmente eclettica la consacrazione, nella maggior parte dei casi buddista o taoista, con ogni possibile variante che queste religioni-filosofie consentono. Ma c’è spazio anche per il confucianesimo e il culto degli antenati o il cristianesimo, per quanto alla croce si aggiungano simboli dell’iconografia sino-vietnamita come gli Shi, i leoni guardiani.
Le fusioni mistiche e stilistiche non sono casuali: tombe e mausolei sono stati realizzati negli ultimi venti o trent’anni, da quando il Vietnam si è riaperto al mondo, utilizzando le rimesse dei rifugiati all’estero. Sono quei boat people che negli anni Ottanta fuggirono proprio da questa costa per raggiungere l’America (e l’Europa), dopo una lunga odissea. Queste tombe sono un modo per riconciliarsi con la terra d’origine e rendere onore agli antenati secondo una tradizione che è la più profonda espressione della religiosità vietnamita. Ma servono anche a dimostrare a chi è rimasto la fortuna raggiunta all’estero, un segno di successo che è testimonianza della benevolenza di quegli spiriti che popolano la dimensione soprannaturale delle popolazioni locali, in maggioranza pescatori e contadini. Gli emigrati mostrano una mentalità al tempo stesso arcaica e consumistica. «Vivono in America, quindi per loro il Vietnam è il passato, non il presente» commenta Mai Khac Ung, anziano storico locale. «Ma non è una cosa buona. Se tutti facessero così, non ci sarebbe più spazio per vivere».
La storia del signor Kanh, del villaggio di An Banh, è esemplare. Dapprima ha combattuto nell’esercito del Vietnam del sud. Dopo la vittoria dei comunisti ha deciso di fuggire. C’è riuscito nel ’79 con l’esodo dei boat people. Dopo mille peripezie ha raggiunto le Hawaii, dove ha lavorato come pescatore per trentotto anni. I soldi messi da parte li ha impiegati per costruirsi una casa nel villaggio d’origine (costata duecentomila dollari) e, a pochi passi da casa, la tomba di famiglia (settantamila dollari). «Ho speso tutto. Così i miei figli non dovranno litigare per l’eredità».
Mostra orgoglioso la casa, con un grande altare per il culto degli antenati e una grandissima cucina. Poi la tomba. È costruita secondo antiche regole: a destra, guardando l’ingresso, lo spazio destinato alle donne, a sinistra quello per gli uomini.
I suoi genitori sono già là e gli altri posti sono riservati a lui, sua moglie, suo fratello minore e la sua consorte. «Per ora continuo a vivere in America. Vengo in Vietnam in vacanza, se posso in coincidenza del primo giorno del mese lunare, per rendere omaggio ai defunti. Non so se abiterò mai davvero nella casa che ho costruito. Di sicuro riposerò in questa tomba» racconta serenamente il signor Kanh, che già pensa alla prossima vita: «Mi piacerebbe reincarnarmi in un passero».