Bussole

Un milione di passi
Inviti a letture per viaggiare

«Perché partire? Questa è la domanda. Tanto, sappiatelo, prima o poi, dopo tutto il vostro rimuginare, camminare, fotografare e riflettere, alla fine ve la faranno. Quindi pensateci bene: le motivazioni sono molte, e tra le più quotate ci sono senza dubbio le più sagge. Perché avevo bisogno di raccogliere le idee, di cambiare vita per un po’. Perché avevo necessità di stare con me stesso. Perché…»

Il nostro collaboratore Fabrizio Ardito conosce bene le diverse vie per Santiago di Compostela. Lungo questi cammini, in diverse occasioni nel corso degli anni, ha percorso circa duemilatrecento chilometri. I pochi compagni di viaggio di un tempo sono aumentati a dismisura: oltre 250mila nel 2016. 

Questa esperienza di lungo corso è confluita dapprima nel bel volume fotografico I Cammini di Santiago (Touring Editore), dedicato ai quattro itinerari principali: il tradizionale Camino Francés, la Via de la Plata attraverso l’Estremadura (raccontata anche sulle pagine di «Azione»), il Camino Portugués e il Camino del Norte lungo la costa atlantica del Golfo di Biscaglia.

Ma dopo questa rassegna dei diversi percorsi a Fabrizio Ardito restava ancora molto da dire, su un piano diverso, più semplice e concreto. È nato così questo piccolo volume che si sofferma appena sulle motivazioni profonde di chi parte (peraltro spesso oscure a noi stessi) e mette piuttosto in fila una serie di consigli pratici: come prepararsi al viaggio, cosa mettere nello zaino (il meno possibile), le letture preparatorie, come modulare la lunghezza delle tappe, come scegliere gli eventuali compagni di viaggio, come difendersi dalla pioggia, dove dormire e mangiare, come gestire dolori e acciacchi… Sino al ritorno alla vita normale che – dopo ottocento chilometri e un milione di passi – non sarà più la stessa.

Bibliografia
Fabrizio Ardito, Come sopravvivere al Cammino di Santiago, Ediciclo, 2017, pp.144, € 12,50.


Passaporti per femministe

Viaggiatori d’Occidente - Negli anni Venti il viaggio cambiò l’immagine delle donne
/ 18.04.2017
di Claudio Visentin

«Il segretario di Stato degli Stati Uniti d’America chiede che al titolare del presente documento sia concesso il passaggio senza ritardi o impedimenti e che, in caso di bisogno, gli sia accordata la protezione della legge». Questo messaggio compare su ogni passaporto americano e riassume il fondamentale significato del documento. Dopo la caduta del Muro di Berlino (1989), le frontiere sembrarono superate e destinate a scomparire nel nuovo mondo globale. Al contrario negli ultimi tempi i confini sembrano aver ripreso importanza e di conseguenza anche il passaporto, che permette di attraversarli. Nel frattempo questo documento si è evoluto; e ad esempio è già dal 2007 che, per prevenire infiltrazioni di terroristi, gli Stati Uniti hanno iniziato a rilasciare solo passaporti biometrici, cioè con riconoscimento del volto, dell’iride e delle impronte digitali (come ora si fa anche da noi).

Non fu sempre così. Fino alla Prima guerra mondiale i passaporti non erano necessari per recarsi all’estero, quanto meno nei Paesi più moderni. Certo, li richiedevano Russia e Turchia, ma così facendo provavano anche la loro arretratezza. Solo negli anni Venti del Novecento, dopo che la Prima guerra mondiale aveva sconvolto le frontiere tra gli Stati, il loro uso divenne più comune. E fu proprio allora che negli Stati Uniti scoppiò una curiosa controversia. Si discuteva di questo: una ragazza americana poteva avere il passaporto col suo nome ma, dopo il matrimonio, veniva registrata sul documento del marito, per esempio «Mr. John Smith e signora». Era una regola burocratica, ma ancor più il riflesso della mentalità del tempo: era semplicemente impensabile che una donna viaggiasse all’estero senza essere accompagnata dal marito.

Le femministe capirono che il passaporto era il pretesto perfetto per ingaggiare una battaglia per l’uguaglianza delle donne, a cominciare dalla possibilità di mantenere il proprio nome dopo il matrimonio; un tema d’attualità, se pensiamo che solo dal 2013 questo diritto è riconosciuto dalla legge svizzera. Alcune attiviste cercarono di creare un precedente. Poco dopo essersi sposata, nel 1917, la scrittrice Ruth Hale chiese un passaporto a suo nome per andare in Francia come corrispondente di guerra, ma la richiesta non fu accolta. Nel 1922 un’addetta stampa, Doris Fleischman, acquistò il biglietto di un transatlantico diretto in Europa e pose un ultimatum al suo capo, il giornalista Edward Bernays: «Sposami o non mi vedrai mai più».

L’uomo accettò la singolare proposta ma Doris Fleischman decise di andare comunque in Europa da sola dopo il matrimonio e chiese un passaporto a suo nome. La prima versione del documento era intestata a «Doris Fleischman Bernays, conosciuta professionalmente come Doris Fleischman», e naturalmente questa soluzione di compromesso scontentò tutti. Solo nel 1925 Doris riuscì a far togliere ogni riferimento al marito, per la prima volta negli Stati Uniti. Nel 1937, dopo una prolungata campagna di stampa, questa eccezione divenne la regola, per decisione di un’altra donna, Ruth Shipley, che si era fatta strada nella pubblica amministrazione sino a diventare la responsabile dell’Ufficio passaporti, con decine di uomini sotto il suo comando.

Questo cambiamento fu reso possibile anche da alcune coraggiose viaggiatrici, le cui imprese sfidarono gli stereotipi femminili. In quegli stessi anni per esempio il pubblico si appassionò alle imprese di Idris Galcia Hall, meglio nota come Aloha Wanderwell, «The World’s Most Traveled Girl». Idris era originaria di Winnipeg, Canada, ma si era trasferita in Francia con la famiglia al seguito del padre, volontario nella Grande guerra, morto nella battaglia di Ypres (1917). Dopo la perdita del padre, la fanciulla rimase in Francia, dove studiava svogliatamente in una scuola di suore; più spesso la sua mente, nutrita dai giornaletti, si perdeva dietro a sogni di viaggi in terre lontane, avventure, intrighi.

Nel 1922, quando aveva solo 16 anni, Idris rispose a una curiosa inserzione rivolta a una giovane donna con «cervello, bellezza e calzoni» per una spedizione intorno al mondo. L’autore dell’inserzione era un avventuriero polacco, Valerian Johannes Piecynski, che si faceva chiamare Capitano Walter Wanderwell. E, dopo averla scelta, Aloha Wanderwell fu il nome d’arte che attribuì alla giovane. Ad Aloha fu affidata la seconda auto della spedizione, una Ford modello T, la prima automobile prodotta in serie dall’industria statunitense. La giovine con grande energia condusse la sua auto attraverso Spagna, Portogallo, Marocco, Italia, Svizzera, Belgio, Olanda, Germania, Polonia, Russia, Romania, Bulgaria, Grecia, Turchia, Siria, Palestina, Egitto.

Dopo aver posto il campo ai piedi della Sfinge, la spedizione attraversò il Mar Rosso alla volta dell’India e avanzò in Birmania, Indocina, Siberia e Giappone, superando ogni difficoltà. Soprattutto in India e Cina fu difficile trovare carburante, olio e pezzi di ricambio e per alcune tratte le auto dovettero essere tirate a braccia dai pazienti coolies cinesi. La spedizione si concluse con la traversata dal Pacifico verso San Francisco, dove i Wanderwell arrivarono nei primi giorni del 1925.

Lungo tutto il viaggio, Aloha svolse i più diversi compiti: attrice, fotografa, cameraman, meccanico. La sua abilità nel parlare le lingue straniere si rivelò utilissima, insieme alla facilità nello stabilire un dialogo con le persone incontrate. Ma soprattutto l’intrepida viaggiatrice seppe mantenere desto l’interesse dei giornali, un elemento fondamentale per una spedizione senza finanziamenti sicuri. E poco male se in questo modo la segretaria rubò la scena al suo principale con il quale peraltro, strada facendo, si era stabilito un legame profondo. Infatti dopo il ritorno negli Stati Uniti Aloha sposò il capitano Wanderwell e partì con lui per nuovi viaggi, a cominciare dall’Amazzonia. Ma certo nel suo caso, anche senza vedere il passaporto, nessuno avrà pensato a lei come a una semplice accompagnatrice del marito…