Gli scrittori compaiono nei giornali due volte: prima nelle pagine della cultura, quando sono all’apice della fama, poi, a distanza di qualche decennio, nei necrologi. Qualche settimana fa questa sorte è toccata anche allo scrittore e viaggiatore Robert Maynard Pirsig, morto a 88 anni nel Maine.
Pirsig ebbe una vita avventurosa e tormentata. Poco gli fu risparmiato: sperimentò le prepotenze dei compagni di scuola, l’espulsione dall’università, il servizio militare in Corea, il divorzio, la malattia mentale e l’elettroshock. La tragedia maggiore fu la morte a soli ventitré anni del figlio Chris, suo compagno nel viaggio attraverso l’America, accoltellato durante una rapina a San Francisco.
Tra tante ombre, conobbe anche la benedizione di giornate luminose, grazie al successo del suo libro Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. Era il resoconto di un viaggio di diciassette giorni, compiuto nel 1968 con Chris e una coppia di amici, attraverso gli Stati Uniti, dal Minnesota al Pacifico, da Minneapolis a San Francisco. Dopo esser stato rifiutato da oltre cento editori, nel 1974, quando fu infine pubblicato, il libro vendette un milione di copie; e altri cinque milioni furono acquistate nelle diverse traduzioni, nei decenni seguenti.
Anche il titolo del libro ebbe una fortuna senza limiti. Pirsig si era ispirato a un testo difficile e raffinato, Lo Zen e l’arte del tiro con l’arco, del filosofo tedesco Eugen Herrigel: il racconto del faticoso percorso di avvicinamento allo zen di un occidentale. Ma dopo Pirsig, fu il diluvio. Scorrendo rapidamente i titoli di una libreria online si trova di tutto: Lo zen e l’arte di mangiar bene, Lo zen e l’arte di giocare a tennis, Lo zen e l’arte di innamorarsi…
Al tempo del suo trionfale esordio, molti considerarono Pirsig l’erede di Jack Kerouac e del suo romanzo autobiografico Sulla strada (On the Road, 1951). Entrambi pensavano che il viaggio fosse più importante della meta, che quel che conta è andare, non importa dove. Ma Pirsig non si limita a raccontare le sue peregrinazioni attraverso gli Stati Uniti. Il resoconto di viaggio è costellato di considerazioni personali e riflessioni, in dialogo con le filosofie orientali, ma senza scordare il fido Thoreau (Walden. Vita nel bosco è il solo libro che Pirsig porta con sé, oltre al libretto d’istruzioni per riparare la moto, naturalmente).
Nel pensiero di Pirsig c’è uno sforzo di superare la distinzione tra quantità e qualità (la malattia dell’Occidente) e soprattutto di trovare una conciliazione con la tecnologia, attraverso la lezione appresa nella cura paziente e quotidiana della motocicletta: «Il Buddha, il Divino, dimora nel circuito di un calcolatore o negli ingranaggi del cambio di una moto con lo stesso agio che in cima a una montagna o nei petali di un fiore». È possibile amare la propria moto (in questo caso una Honda CB77 Super Hawk), comprenderne la personalità, quel che la rende diversa dagli altri modelli (ma anche dagli altri esemplari dello stesso modello), e al tempo stesso godere la bellezza di una strada di campagna, anzi, godere la bellezza di una strada di campagna grazie alla motocicletta: «Se fai le vacanze in motocicletta, le cose assumono un aspetto completamente diverso… Hai un contatto completo con ogni cosa. Non sei più uno spettatore, sei nella scena, e la sensazione di presenza è travolgente».
Come lo stesso Pirsig riconosceva, il suo libro ebbe soprattutto il merito di essere giunto al momento giusto. Gli hippy avevano messo in discussione il sogno americano, ma la loro alternativa libertaria era presto apparsa pittoresca, astratta e irrealizzabile. Molti americani avevano accettato la critica hippy al consumismo e al materialismo, ma cercavano un’alternativa diversa e più seria. Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta mostrava un traguardo positivo, un’estensione alla sfera spirituale dell’idea di successo. Suggeriva che si potesse desiderare qualcosa più di un buon lavoro e della tranquilla vita di ogni giorno.
Proprio per lo stretto legame con il loro tempo, queste parti appaiono oggi sempre interessanti, ma un poco più datate. E invece le pagine più vive ed efficaci restano quelle in cui Pirsig si limita a raccontare il grande viaggio, con la sua capacità di stupirsi sempre di nuovo a ogni tappa («Ho visto questi acquitrini mille volte, eppure ogni volta mi sono nuovi»). Diverse sue intuizioni fioriranno nel nostro tempo: il viaggio lento, a stretto contatto con la strada («Arrivare sulle Montagne Rocciose in aereo equivarrebbe a vederle solo come un bel panorama. Ma arrivarci dopo giorni di duro viaggio attraverso le praterie significa vederle come la meta, come la terra promessa»), il desiderio e il piacere di perdersi, la passione per le strade secondarie, perché «le strade migliori non collegano mai niente con nient’altro».
Ma neppure qui tutto è luce. A tratti questo quadro sereno è insidiato da un’ombra, che Pirsig chiama Fedro: un altro sé, il ricordo di quando per tre lunghi anni era precipitato nell’abisso della malattia mentale. Anche nei luoghi più lontani, il volto dell’uomo che siamo stati ci scruta tra la folla…