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Sulla terribile Pax trumpiana
Cosa c’è dietro la fragile tregua tra Israele e Iran, il ruolo dell’America pronta a rifare «amicizia» con il Pakistan
Francesca Marino
Ormai è diventata una prassi consolidata, pare. Per la seconda volta in poco più di un mese, Donald Trump annuncia via social media, e senza che le parti ne abbiano dato notizia, la fine di un conflitto armato. Lo scorso 10 maggio era toccato a India e Pakistan, il 24 giugno è stata la volta di Israele e Iran. Dal suo account Truth Social, il presidente americano si scatenava con l’abituale abbondanza di maiuscole: «CONGRATULAZIONI A TUTTI! È stato concordato tra Israele e Iran che ci sarà un cessate-il-fuoco completo e totale…. Partendo dal presupposto che tutto funzionerà come dovrebbe, e così sarà, vorrei congratularmi con entrambi i Paesi, Israele e Iran, per aver dimostrato la forza, il coraggio e l’intelligenza necessari per porre fine a quella che dovrebbe essere definita LA GUERRA DEI 12 GIORNI…».
Le parole di Trump sono molto simili a quelle adoperate per India e Pakistan e, a guardare bene, non per caso. Pochi giorni dopo il cessate-il-fuoco tra Delhi e Islamabad, veniva fuori che nella base di Nur Khan (vicino a Rawalpindi) bombardata dall’India si trovavano militari americani invece che pakistani. Gli stessi militari americani che, a quanto pare, erano atterrati un mese prima a Bagram, in Afghanistan: un piccolo contingente, la cui presenza non è mai stata ufficialmente confermata. Secondo molti analisti, l’unica ragione plausibile della rinnovata presenza americana nell’area era la possibilità di un attacco all’Iran. Qualche settimana dopo, Trump invitava a pranzo alla Casa Bianca il maresciallo di campo Asim Munir, capo dell’esercito pakistano, accreditandolo di fatto come leader del Paese. Non solo: Munir veniva ricevuto anche al Pentagono, al Dipartimento di Stato e all’United States Central Command. Il giorno dopo il Pakistan candidava ufficialmente Trump al Nobel per la pace e, due giorni dopo, lo stesso Trump decideva di entrare nel conflitto tra Israele e Tehran. La popolazione pakistana reagiva con sdegno, invece il Governo prontamente sigillava il confine con l’Iran. E mentre una serie di finti account iraniani gestiti da Islamabad faceva circolare in Rete la notizia che il Pakistan sarebbe stato pronto a prestare ai fratelli iraniani le proprie armi nucleari contro Israele, i generali erano invece impegnati nel gioco che gli riesce meglio: quello delle tre scimmiette.
L’operazione americana, nome in codice Midnight Hammer, ha coinvolto 125 aerei militari e ha preso di mira tre impianti nucleari: Fordo, Natanz e Isfahan. Secondo le informazioni ufficiali, gli aerei sono decollati dagli Stati Uniti. Alcuni jet sono stati inviati a ovest nel Pacifico come «esca», mentre altri hanno preceduto i bombardieri principali per garantire che lo spazio aereo fosse libero. Due dozzine di missili da crociera sarebbero stati lanciati su Isfahan da un sottomarino. E però, forse le cose non sono andate proprio così: in Pakistan e dintorni circola difatti la voce sempre più insistente che in realtà gli americani avrebbero usato, se non le basi, almeno lo spazio aereo pakistano per colpire l’Iran. E che Islamabad abbia, per l’ennesima volta, almeno in apparenza, buttato a mare i fratelli della Ummah di fronte alla prospettiva di diversi miliardi dollari e di una rinnovata «amicizia» con l’America. D’altra parte, i doppi e tripli giochi sono da sempre nel Dna del Pakistan: l’unico Paese islamico dotato di armi nucleari, che con queste ricatta regolarmente il resto del mondo ogni volta che gli viene chiesto conto dei terroristi che alleva e gestisce. Il Pakistan è, se ce ne fosse bisogno, la prova del perché all’Iran, come a qualunque altro Stato che usa il terrorismo come mezzo di politica estera, non deve essere permesso di possedere armi nucleari. Anche se, secondo i post di Trump, gli ayatollah sarebbero in fondo dei bravi ragazzi, se si esclude il vizietto di voler costruire la Bomba. Una «Nazione di commercianti» pronta a fare affari e con una leadership da trattare quindi con tutti i riguardi: anche se il suo più noto contingente militare è un’organizzazione terroristica internazionale. Ma si sa, i terroristi sono amici o nemici, «buoni» o «cattivi» secondo la congiuntura internazionale e la convenienza del momento. Così come i dittatori e i tagliagole travestiti da governanti. In ultima analisi, si può sempre fabbricare un dossier per liberarsene, come successe in Iraq, o invocare d’un tratto il «diritto internazionale» per fermare le armi in nome della «pace» ed evitare che un regime criminale venga eliminato.
Dopo la «guerra dei dodici giorni», gli iraniani tutti ringraziano: specialmente quelli, e sono centinaia, prontamente prelevati dalla polizia all’indomani della «vittoria» celebrata dal regime. Torturati, picchiati, gettati in prigione o appesi per il collo a una gru, contribuiranno al premio Nobel per la pace tanto desiderato da Trump? E che dire delle ragazze iraniane, quelle ridotte a brandelli per aver cantato una canzone o essersi scoperte il capo, quelle accecate dal regime, quelle stuprate, quelle morte e quelle di cui invece non si ha più notizia. Per non parlare di coloro che in Pakistan, dopo la «guerra dei tre giorni», sono scomparsi per mano dello Stato, gli oppositori massacrati, torturati e buttati cadavere per strada. E delle vedove dei turisti ammazzati in India dai terroristi armati da Islamabad. Il fatto è che questa «pace», la decantata Pax trumpiana, non è pace ma, come diceva il filosofo Jiddu Krishnamurti, soltanto assenza di guerra. I conflitti irrisolti, sempre pronti ad essere usati come mezzo per torcere metaforicamente il braccio ad alleati o nemici rimangono, appunto, irrisolti. E pronti a detonarti in faccia quando meno te lo aspetti. Come l’11 settembre, come il 7 ottobre. Lo disse anche Hillary Clinton: «Non puoi allevare serpenti in giardino e aspettarti che mordano soltanto i tuoi vicini». Non puoi sobillare guerre da remoto per poter poi dichiarare la pace. Aver fermato il conflitto in Iran o in Pakistan senza affrontare il problema alla radice, serve a poco. Come la pace, se è soltanto assenza di guerra.