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Fattorie verticali per maiali e altre aberrazioni
Carlo Silini
«Ah beh, sì beh», cantava Jannacci nella canzone Ho visto un re parlando del contadino a cui avevano ammazzato anche il maiale. Perché tra i vessati del potere figurano pure i suini. Perfino oggi che la tecnologia gestisce le melmose – diciamo così – porcilaie d’un tempo. In Cina esistono infatti allevamenti di maiali in verticale: 26 piani, un piccolo grattacielo di campagna, che ospita 260 mila suini, li misura, li svezza, li pesa, li smista a seconda delle dimensioni. Li nutre, li lava e infine li uccide prima che arrivino ai 200 giorni di vita, perché oltre questo limite l’animale mangia sempre di più, ma cresce troppo lentamente e, considerando la legge dei grandi numeri, da lì in avanti la faccenda si fa poco redditizia.
Su ogni piano ci sono 10 mila bestiole e qualche veterinario che sorveglia il processo di produzione, l’indirizzamento dei suini più in carne verso un sistema di rampe e montacarichi che porta infine gli esemplari «maturi» al mattatoio.
In Occidente li hanno ribattezzati «Pig Palace» e i reportages che li raccontano, come quello apparso su «Le Monde» la scorsa settimana, danno molto da riflettere. Visto che l’ingresso è negato ai giornalisti, l’inviato del quotidiano francese ha presentato dall’esterno quello del villaggio di Hongqiao, nella provincia di Hubei. Ma in Cina ne sono sorti già 200 in risposta alla crisi sanitaria dell’estate 2018: quando la peste porcina africana aveva raggiunto la Cina dalla Russia, il Paese si era dimostrato incapace di fronteggiare l’epidemia e il prezzo della carne era raddoppiato in un anno. Un vuoto nei frigoriferi e nel portafoglio della popolazione.
Anche senza essere animalisti, lasciano molto perplessi queste «fabbriche» che riducono gli animali a oggetti, creano scarsi posti di lavoro, ma garantiscono costi sostenibili per i cinesi meno abbienti e – giurano le autorità – una maggior sicurezza sanitaria. Da qui, del resto, si è diffuso il Covid, probabilmente da un mercato di carni di pipistrello e altre prelibatezze selvatiche a Wuhan, finendo col contagiare il resto del pianeta, con le conseguenze che stiamo troppo rapidamente dimenticando. Il «miracolo» efficientista di queste porcilaie consente inoltre di collegarle ai metanodotti che alimentano il sistema energetico di altre aziende. Quello di Hongqiao fa girare un vicino cementificio.
Come ai vecchi tempi, però, ci sono cose che la tecnologia più sviluppata e la volontà politica non possono o non vogliono eliminare. La puzza, per esempio, che si espande per chilometri e non va mai via. I campagnoli ne parlano al corrispondente di «Le Monde», chiedendo l’anonimato. Perché da quelle parti anche gli umani fan parte di una grande fattoria eterodiretta ed è meglio che stiano zitti e buoni nel loro recinto.
E il cinismo. Si dirà che trattarli bene o male, i maiali sempre al macello devono finire. Ma c’è modo e modo di farceli arrivare. E in quella differenza si misura il grado di civiltà del potere. Capiamo le scelte etiche di chi non mangia carne, contrario per principio a qualsiasi ipotesi di allevamento di animali a scopo alimentare in qualsiasi parte del mondo. Per tutti gli altri onnivori umani, le sfumature sono importanti. La legge elvetica stabilisce dimensioni minime per gli spazi degli animali e il numero massimo di quanti possono essere tenuti in determinate strutture. Nei «Pig Palace» cinesi il minimo che si possa dire è che ogni suino ci esaurisce l’intero ciclo vitale in condizioni di sovraffollamento, mancanza di luce naturale e zero possibilità di vita all’aperto. Poveretto, anzi, «pover purscel», canterebbe Jannacci. «Nel senso del maiale».