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Da Bignasco verso il resto del mondo
Flavio Del Ponte nasce a Bignasco, in Vallemaggia, nel 1944. Dopo il Ginnasio al Collegio Papio di Ascona e il Liceo a Einsiedeln si laurea in Medicina, specializzandosi in chirurgia generale e traumatologia di guerra. Dopo le prime esperienze professionali negli ospedali di Cevio e Locarno, parte per una missione all’estero: a Lambaréné, in Gabon, dove cura anche i malati di lebbra. Da lì è un susseguirsi di ritorni e partenze. Del Ponte opera infatti in svariati contesti di crisi quali Cambogia, Vietnam, Laos (1983-86 per conto della Croce Rossa svizzera), Pakistan, Thailandia, Somaliland, Somalia, Kenya, Sud Sudan, Arabia Saudita, Kuwait, Iraq e Haiti (per il Comitato internazionale della Croce Rossa). Lavora anche per l’Oms e l’Unicef.
A 50 anni non solo diventa coordinatore medico dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) in Tanzania, ma anche osservatore delle elezioni politiche in Sudafrica, le prime a suffragio universale dopo l’abolizione dell’apartheid (1994). Poi arriva il genocidio in Ruanda, dove l’odio tra Tutsi e Hutu porta al massacro di oltre 800 mila persone (la chiamata arriva dal Corpo svizzero di aiuto umanitario). Il centro degli aiuti umanitari è Goma. Del Ponte ricorda il terrore, i cadaveri, l’epidemia di colera e i superstiti: un esercito di «disperati vagabondi, affamati e malati, che non si potevano nemmeno chiamare rifugiati, miserrimo com’era il loro stato».
Nel 1994 si trasferisce a New York, dove lavora per la Divisione operazioni per il mantenimento della pace dell’Onu, quando il sottosegretario generale è Kofi Annan. Nel 1996 torna a Berna al Dipartimento degli affari esteri nella Divisione della Cooperazione allo sviluppo portando avanti – tra le altre cose – la battaglia contro le mine anti-persona, la lotta all’Aids e le ricerche sul bioterrorismo. «Solo oggi – dice Del Ponte – mi accorgo, a fine corsa, di una vita così variata e appassionante che m’è passata accanto quasi senza che me ne accorgessi».
La Svizzera non può guardare dall’altra parte
Flavio Del Ponte, chirurgo valmaggese in contesti di crisi, non usa mezzi termini: «La guerra è un abominio contro cui bisogna insorgere ed è necessario difendere l'aiuto umanitario»
Romina Borla
«La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire». Questa citazione di Albert Einstein, scritta su un cartoncino, campeggia nello studio di Flavio Del Ponte, medico valmaggese specializzato in aiuto umanitario e tanto di più, autore di un libro di recente pubblicazione che ci sentiamo di consigliare: Dissonanze. Storie di un chirurgo di guerra, Armando Dadò Editore. L’impulso più forte di scriverlo è arrivato il 24 febbraio 2022, quando è scoppiata la guerra in Ucraina. L’orrore che ritorna, non più lontano da casa sua, e lui «spettatore inerme e paralizzato» a seguirlo in tv. La guerra è una «schifezza, il macello di esseri umani», per continuare con le parole di Gino Strada, altro chirurgo di guerra che Del Ponte ha incontrato sul suo cammino. Un macello di tutti e tutte, che continua imperterrito, senza distinzioni di sorta. «Un abominio contro cui bisogna insorgere», afferma Del Ponte. «Pensiamo alle sofferenze indicibili inflitte ai bambini: ferite, mutilazioni, violenze, fame, abusi e uccisioni. Si tratta di crimini inumani che non si possono tollerare. Si deve cominciare da lì, dalla sofferenza muta dei piccoli innocenti e delle loro madri impotenti. Chi ordina la guerra a tavolino, magari pigiando un bottone, dovrebbe vedere e toccare con mano questo dolore… Come anche chi auspica tagli ai fondi per l’aiuto umanitario. Tagli senza senso, soprattutto in un Paese come la Svizzera che ha dato i natali alla Croce Rossa. Dobbiamo difendere l'aiuto umanitario e promuovere la cultura della medicina dell'umanitario, i cui contorni vanno meglio definiti, spingendo i giovani a buttarsi in quel campo dopo adeguata preparazione».
Intanto però arrivano notizie di senso opposto. Settimana scorsa il Consiglio nazionale elvetico ha approvato una proposta con cui s’intende stralciare i 20 milioni destinati all’UNRWA, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi. E, di recente, gli Stati Uniti hanno approvato l’invio di mine anti-persona in Ucraina, nonostante queste armi siano state messe al bando dalla comunità internazionale quasi 30 anni fa poiché «uccidono o mutilano centinaia di persone ogni settimana, per la maggior parte civili innocenti e senza difesa, in particolare bambini; ostacolano lo sviluppo e la ricostruzione economici; impediscono il rimpatrio dei rifugiati e delle persone dislocate sul territorio; e comportano ulteriori gravi conseguenze durante gli anni successivi alla loro posa» (vedi Convenzione di Oslo del 1997, ratificata dalla Svizzera ma non da Stati Uniti, Russia, India e Cina).
Sofferenza muta dei più piccoli, dicevamo, ma anche resilienza. Spiega Del Ponte: «I bambini dispongono di un potentissimo “riflesso interno vitale”. Riescono cioè a passare dal dolore più acuto all’allegria, alla libertà della fantasia. Ne ho visti tanti animare lo spirito degli ospedali: giocavano con nulla, avvolti nelle loro lenzuola che di giorno diventavano i loro vestiti, giravano tra i giacigli inventando mondi. Riuscivano a divertirsi in contesti poco rallegranti, ad inventarsi un clima famigliare che faceva bene anche agli adulti... E partecipavano ad ogni attività con entusiasmo. Ad esempio in Africa abbiamo proposto dei corsi di lingue e tutti loro aderivano, attentissimi e impegnati. L’intento era quello di spezzare le giornate infinite dei piccoli ricoverati in ospedale». Strutture di cura che, nelle varie parti del mondo, assumono contorni diversi da quelli a cui siamo abituati. Nel saggio del medico valmaggese sono descritti tanti ospedali, come quello Digfer di Mogadiscio: «Un mastodonte malconcio» dove «le sale operatorie, se davvero era possibile chiamarle così, giacevano in uno stato che non saprei neppure descrivere. In un caos totale si cercava di fare quanto possibile con mezzi ridottissimi, l’igiene inesistente, l’elettricità a singhiozzo. (…) Per terra e ovunque erano disseminati stracci e compresse intrise di sangue e di altri liquidi, brandelli di abiti sudici buttati lì assieme a pezzi di stoffa che ancora avvolgevano i resti di vecchie amputazioni». Lo scontro con la dura realtà dei contesti di crisi era forte – osserva il nostro interlocutore – ma poi ti abituavi e «devo dire che nelle strutture della Croce Rossa eravamo privilegiati; se mancavano materiale o strumenti lo annunciavamo e giungevano la settimana seguente».
Del Ponte ci parla anche dell’incontro, nei diversi Paesi visitati, con la medicina tradizionale ovvero con gli «esperimenti» condotti dai guaritori del posto utilizzando polvere vegetale, sterco di cammello, frutta macerata, uccelli schiacciati, frattaglie e molto altro. «Ho sempre avuto l’impressione che si trattasse di cure dirette all'anima più che al corpo», afferma. «Naturalmente non reagivo sempre bene quando mi chiamavano, di notte, nel reparto degli “operati”, poiché alcuni pazienti avevano le ferite aperte ricoperte da piume colorate e sostanze non ben definite». Ma si trattava di un insieme di credenze e rituali da considerare e rispettare. Il nostro interlocutore – sia nel saggio sia nell’intervista – affronta a più riprese il tema del lato umano della medicina, racconta di quando ti tremano i polsi davanti a un essere umano che soffre o che sta per morire. «Il personale curante – osserva – si trova spesso a dover gestire situazioni molto difficili, ancora più forti in contesti bellici. Il lato emotivo emerge sempre. Ma situazioni terribili e scioccanti, nel momento in cui vengono vissute, non vengono percepite come tali. Poter fare qualcosa di pratico – ad esempio di fronte allo strazio di corpi dilaniati – in qualche modo ti distrae dal sovraccarico di emozioni. Che comunque resta impresso nel cuore e nella mente. In un secondo tempo bisognerebbe riprendere in mano il pesante carico, elaborarlo, per evitare di cadere nella spirale dello stress post-traumatico».
Per fortuna c’erano le pause «salvifiche»: le sue missioni duravano qualche mese e poi tornava a casa, alla vita cosiddetta normale, per ricaricare le batterie. Poi c’erano i confronti con specialisti di psicologia, la musica – che è sempre stata una sua passione – e la stesura di un libro di ricordi dove Del Ponte torna a mettere mano alla sofferenza umana, che non finisce quando viene firmato un trattato di pace. Dopo un conflitto infatti il Paese è in ginocchio, in preda alla disperazione e alla povertà. Non ha i mezzi per andare avanti. Tra i sopravvissuti – anche quelli curati dai medici dell’umanitario – c’è chi ritrova la salute perfetta, almeno quella del corpo, ma la maggioranza rimane bisognosa di cure per tutto il resto della vita. Vive un’esistenza miserabile, magari senza famiglia, senza nessuno che se ne prende cura. «E qui – dice l’intervistato – si evince l’importanza dell’aiuto allo sviluppo e alla cooperazione: un sostegno preziosissimo che non può mancare e deve obbligatoriamente seguire alla prima fase dell’aiuto umanitario che salva la vita».
Nel saggio si parla anche di come avvicinarsi alle professioni dell’umanitario, del tormento per la discriminazione delle donne dentro e fuori gli ospedali, della lentezza burocratica delle istituzioni nonostante le urgenze del mondo, dei dubbi... Ma non c’è spazio per lo scoraggiamento. «Mai. Non ci si può fermare. Bisogna tornare ai principi fondamentali, ai trattati – così spesso disattesi – dei diritti umani e dei bambini. Aggrapparsi alla speranza, cambiare rotta. Mi ripeto: ai Paesi che non sono in grado di risalire la china occorre un aiuto, servono più mezzi e persone». Inoltre – aggiunge Del Ponte – bisogna lavorare sulla formazione nella medicina dell’umanitario. Tentativi sono stati fatti, ma ad oggi in Svizzera non esiste una specializzazione universitaria ad hoc. Sono comunque presenti corsi interessanti di formazione a livello internazionale (ad esempio www.dismedmaster.com) al quale il nostro interlocutore ha potuto dare una mano per alcuni anni come insegnante invitato. Gli resta il rimpianto di non essere riuscito ad «impiantarlo» in Svizzera e si augura che altri lo sapranno fare: «Il bisogno è oggi più pressante che ieri».