La copertina ci fa rivivere le emozioni e le lacrime dell’ultima apparizione in campo del divino Roger Federer. Quanto ci mancheranno le sue magie! Potremo anche riassaporare il primo oro olimpico di Lara Gut, insieme alle medaglie mondiali ed europee di Noè Ponti, Filippo Colombo e Ricky Petrucciani. Nel paginone centrale ecco il sorriso di Marco Odermatt. In braccio regge la sua prima sfera di cristallo. Sorride perché sa che potrebbe essere la prima di una lunga serie. Glielo auguriamo. E che dire del reportage sull’esodo bianconero a Berna, con capitan Sabbatini che alza al cielo la Coppa svizzera 29 anni dopo Tita Colombo? Bei momenti.
Ma prima di tutto ciò, in bella evidenza, nella fascetta che cinge il volume, riaffiorano le ceneri ancora calde della Nazionale svizzera di calcio. Lo schiaffo inflittoci dal Portogallo ha bruciato in novanta minuti tutte le ambizioni che avevamo coltivato in trent’anni. Da quando Uli Stielike prima, Roy Hodgson poi, avevano cominciato a ricostruire l’immagine e la credibilità di una nazionale che fino ad allora era abituata a lottare… e a perdere.
C’è voluto ovviamente anche il contributo dei figli degli immigrati, i cosiddetti secondos. Dapprima italiani e iberici , come Ciriaco Sforza e Ramon Vega. Poi turchi, come Kubi, Inler e i fratelli Yakin. Infine, oltre ad alcune presenze latine, vedi Rodriguez e Vargas, si sono tinti di rossocrociato i calciatori di origini slave e balcaniche, come Seferovic, Behrami, Džemaili, Shaqiri, Xhaka, per citare i più sollecitati dai vari Mister che si sono avvicendati sulla panchina. Con i soli Müller e Bernasconi dubito che la Nazionale sarebbe riuscita a qualificarsi per otto delle nove ultime grandi manifestazioni internazionali. Non ho citato la Romandia? Solo perché il cognome più diffuso oltre Sarine è Da Silva. A conferma dell’inevitabile e corroborante melting pot che sta rimescolando carte, valori e consuetudini.
Ben inteso, che cantino il salmo o meno, sono tutti cittadini svizzeri. Tutti hanno lottato per conquistarsi un posto al sole. Tutti hanno dato l’anima per i nostri colori. Perché sono anche i loro colori. Sia per appartenenza, sia per interesse. Non potrei neppure immaginare che l’umiliante uscita di scena dal Mondiale sia figlia del disimpegno. Tutti sanno che una simile vetrina va onorata, tanto quanto la maglia. Non fosse altro che per questioni di mercato. E allora perché? Attenuanti non se ne intravedono.
Il raffreddore di Widmer e Elvedi non è sufficiente per giustificare la débâcle. E neppure la crocifissione di Murat Yakin sarebbe una via sana per metabolizzare lo choc. Il Mister ha commesso degli errori, nella scelta dei singoli e nel modulo. Ma in campo ci vanno i giocatori, con le loro emozioni, le loro tensioni, i loro problemi. Non è un caso che alla Coppa del Mondo le squadre vengano segregate in lussuosi e blindatissimi alberghi. L’idea è quella di isolare i calciatori dal contesto mediatico, di proteggerli da polemiche, lodi, critiche, invettive e soprattutto, nel caso della Svizzera, dal rapporto conflittuale tra alcuni di loro e una parte dell’opinione pubblica. Spingendo l’operazione fino alle estreme conseguenze li si dovrebbe immergere in una bolla impenetrabile, senza radio, tv, computer, telefonino, al riparo dall’azione devastante dei social media. Missione impossibile.
Vedere giocatori come Freuler e compagni che si scusano con i sostenitori, suscita al tempo stesso rabbia, amarezza e tenerezza. Il 6 a 1 incassato dai lusitani è senza dubbio il passivo più pesante della nuova era. Sono certo che non capiterebbe di nuovo, se nei prossimi dieci giorni dovessimo incontrare altre dieci volte il Portogallo. A maggior ragione, se vogliamo capitalizzare lo schiaffo, il dirigente Pierluigi Tami, il selezionatore Murat Yakin e i loro staff dovranno analizzare al microscopio tutto quanto è accaduto tra la dignitosa qualifica in un girone di ferro, e l’imbarazzante uscita di scena contro un avversario che solo pochi mesi prima avevamo imbrigliato.
Sarà indispensabile capire se ciò è dovuto a limiti tecnico-tattici, a un presunto scarso attaccamento alla maglia, alla sindrome di Calimero che ci paralizza nei momenti topici, o ad altre ragioni.