Nella sala d’attesa del medico di famiglia i discorsi vertono sulla nostalgia per un passato che non è mai esistito. La nostra città non è più quella di una volta, quando, se chiudevi la porta di casa prima di allontanarti, i vicini si offendevano. Quando, se perdevi il portafoglio chi lo ritrovava e te lo riportava ci metteva dentro qualche banconota in più per consolarti dello spavento. Adesso non si è più sicuri di niente. Non mi credete? Date uno sguardo alle pagine della cronaca: «Tira fuori la mano dal finestrino per segnalare la svolta e gli sfilano dal polso il Rolex». «Gli portano via scarpe e vestiti mentre è chiuso in cabina per misurarsi un paio di pantaloni». «Mentre è seduto davanti alla TV gli svaligiano la casa. Se ne accorge sono quando pretendono di portargli via il televisore ancora acceso». C’è da avere paura persino a viaggiare sul tram.
Ascolto e taccio. Non voglio alimentare paure immotivate, non racconto la mia avventura lunedì mattina, sul tram numero 15 pieno di studenti diretti al palazzo dell’università. Giunto alla mia fermata, per scendere devo scostare con forza un braccio che mi sbarra la strada. Guardo a chi appartiene e incrocio lo sguardo pietroso e la mascella serrata di un giovane uomo, i capelli neri e ricci.
Lampo di memoria: ultimi giorni d’agosto del 1988, su un vecchio tram di Lisbona, i sedili su due file contrapposte lungo i bordi. Si sale e si scende dal centro della vettura, per andarsi a sedere si passa da un varco. Viaggio seduto controllando il percorso su una piantina della città.
Quando arriva per me il momento di scendere, mi alzo e mi trovo il varco sbarrato da un braccio; anche qui si tratta di un giovane uomo che lancia uno sguardo di sfida. L’ho forse senza volerlo offeso? Oppure si tratta di una provocazione per farmi cadere in una trappola approfittando del fatto che, come prova la piantina, non sono pratico del posto? Con timore e con sforzo spingo in là il braccio e riesco a scendere a terra. Il giovane prepotente prosegue la sua corsa sul tram e io mi sento sollevato come se fossi sfuggito a un oscuro pericolo. M’incammino e il sollievo dura fintantoché non cerco di mettere mano al portafoglio scoprendo che mi è stato rubato; dentro c’erano i soldi e tutti i documenti, meno per fortuna il passaporto.
Così ora, sul tram numero 15 della mia città, venendomi a trovare in un’analoga situazione, la mano corre rapida alla tasca del portafoglio: c’è ancora! Non solo, ma questa volta il giovane che mi sbarrava l’uscita scende con me; mi vergogno di aver sospettato di lui che ha certamente notato il mio affannoso palparmi le tasche. Mi profondo in scuse, gli dico che se avessi capito che anche lui sarebbe sceso alla mia fermata non l’avrei spintonato per farmi largo. Il giovane non parla, si limita a sorridere e si allontana. Io m’incammino nella direzione opposta.
Compiuti una decina di passi, il giovane mi raggiunge con il respiro affannato dalla corsa. Mi consegna un mazzo di chiavi, sostenendo che l’ho perso scendendo dal tram. Accenna a un mezzo sorriso e non riesce a frenare uno sguardo di trionfo. Fugge via senza darmi il tempo di ringraziarlo, di offrirgli un caffè. Sono stordito dal pensiero di cosa avrebbe significato in termini di fatica e di spesa rifare tutte le serrature aperte da quelle chiavi se le avessi perdute. A mente fredda ci ripenso: mi sembra impossibile che quel mazzo che tengo sempre dentro un sacchetto di stoffa in una tasca profonda sia potuto cadere da solo per terra senza che io me ne accorgessi.
Tre sono le ipotesi. La prima: le chiavi mi sono effettivamente cadute per terra e il giovane mi ha rincorso per riportamele. Ma allora perché è scappato subito via? Seconda ipotesi: mi ha preso la busta dalla tasca e poi, vedendo che conteneva solo delle chiavi me le ha riportate, colpito dal fatto che mi ero scusato con lui una volta scesi alla fermata. Terza ipotesi: quando ha notato che mi tastavo la tasca dov’era il portafoglio, mi ha sottratto le chiavi con l’intenzione di riportarmele per dimostrami che, nonostante tutte le mie precauzioni, lui era in grado di sottrarmi qualcosa dove e quando voleva. Delle tre ipotesi preferisco quest’ultima perché in questo caso io e lui siamo alla pari; non c’è subalternità né da una parte né dall’altra, non c’è ossequio servile né un mal riposto senso di superiorità, non c’è paura dell’altro, ma una volta tanto c’è sfida, gioco, gesto gratuito.