Apro gli occhi e mi guardo attorno. La stanza è strana, sproporzionata: troppo lunga e bassa e stretta. I muri sono verde bottiglia, il soffitto candido con plafoniere troppo distanti per un’illuminazione adeguata. Un senso di fastidio al volto. Ci passo sopra una mano: indosso una maschera ad ossigeno. Guardo la mano: porta un ago di flebo. «Non così. Non adesso. Stai tranquillo» – una mano sposta la mia e dolcemente la riposiziona: «Dormi». Mi riassopisco.
«Finalmente! Era ora! Ringraziamo Dio!». Charity, l’infermiera che diventerà il mio angelo custode per le prossime due settimane, sorride. Si alza, accenna a un passo di danza e va a prendermi un bicchiere d’acqua. È felice: l’obroni (Uomo Bianco) si è svegliato. Ricomincio dalla fine della storia. I ricordi si infilano con ordine uno dietro l’altro come le perle di una collana di conterie. Ero arrivato a casa di Luca, il mio amico e collega dopo un viaggio senza fine dal villaggio alla capitale. La febbre aveva ricominciato a salire. Juan, il giovane medico cubano – alto, bello, elegantissimo aveva auscultato il torace. Mi ero accorto solo allora che il mio respiro era spesso, pesante. «Questa è polmonite. Meglio andare in ospedale». Poi non ricordo più nulla. Alla clinica cinese ero in pratica l’unico paziente. Era nota in città con il soprannome di Ospedale delle Malattie Felici. Questo perché – dicevano – al contrario degli ospedali pubblici, da qui si avevano ottime probabilità di uscire in piedi, con le proprie gambe. «Vede, prof. – mi avrebbe ammonito Kwame, il medico ghanese che mi visitava cinque volte al giorno non fosse perché non aveva altro da fare – questa è una clinica seria. Noi non siamo come gli ospedali pubblici. Lì, appena sei in grado di stare in piedi, ti dimettono perché hanno bisogno di letti. Così vai a casa, muori, tutti vengono al tuo funerale e prima di lasciarsi portare in ospedale quando sono malati ci pensano due volte. Così la pressione sui posti letto si allenta per la seconda volta. Noi no. Noi i nostri pazienti li teniamo qui. Fino a quando non siamo assolutamente certi che moriranno di tutto fuorché di quello che avevano quando sono entrati qua dentro…». Già. Ero io che insistevo perché mi dimettessero non appena avevo cominciato a star meglio. Sapevo che la Malattia Felice mi costava una bomba che non potevo permettermi con la mia modesta pensione di Sua Maestà Britannica. Mi ero rassegnato («passerò dall’ospedale all’ostello dei poveri») anche perché le mie ricerche sul cellulare sempre più scoraggiate per trovare un volo per l’Italia non cavavano un ragno da un buco. Voli intasati, l’aeroporto internazionale nel caos, passeggeri appiedati inferociti… aveva dovuto intervenire l’esercito. Poi, un giorno la Divina Provvidenza mise in rete un biglietto per un volo su Venezia. Uno. Tempo di volo eterno, prezzo agghiacciante. Prendere o lasciare. Preso. Anche il pagamento al cellulare aveva per una volta funzionato. Era chiaramente un segno dal Cielo: evvvaiii!
Quella notte l’unica altra paziente nel vicino reparto maternità aveva dato in escandescenze. Ore insonni ad ascoltare urla e grida. «Com’è andato il parto?» avevo chiesto la mattina, esausto, mentre Charity mi rassettava le lenzuola. «Parto un corno» mi aveva risposto seccata. «Non era incinta. Aveva le jins (gli Spiriti del folklore islamico che in Africa affliggono specialmente le donne con fitte di possessione) e l’abbiamo spedita all’ospedale pubblico. La nostra clinica non è posto da jins».
«Dottor Kwame, che lei lo voglia o no io lunedì esco dalla clinica. Mi parte il volo per l’Italia e non c’è nessuno che possa fermarmi. No – nemmeno l’esercito: quello ha abbastanza da fare in aeroporto». Sarà stato il peso del conto da pagare, sarà stato quello della borsa di medicine – costosissime – che mi erano state date come viatico (il mio medico curante mi avrebbe poi ingiunto, inorridito e in nome di Dio di buttare via tutto, perché quei dosaggi lì avrebbero ammazzato un elefante), sarà pur stato che aveva ragione il Dottor Kwame… Quella mattina uscivo sì dalla clinica in piedi, ma appena giunto in aeroporto un’addetta alla Sicurezza aveva intuito, dal mio incedere stentoreo, che non sarei mai arrivato alla fine dei controlli sulle mie gambe. Appena prima che collassassi mi ritrovai legato su una sedia a rotelle con tanto di autista. Il resto è storia. Grande Ghana, grandi i ghanesi che hanno ancora un occhio fine di riguardo per gli anziani – di ogni colore. God bless Ghana.