Sono settimane travagliate in Vaticano, tra il «vaso di pandora» delle polemiche aperto nel fronte tradizionalista dal dopo-Ratzinger, lo scontro tra la Curia romana e i vescovi tedeschi sulle modalità del Sinodo e l’ennesimo scandalo per gli abusi di cui ora è accusato il notissimo gesuita slovacco padre Marko Ivan Rupnik, vicinissimo a Bergoglio. Nel mezzo di tutti questi veleni, rischia di passare – a torto – in secondo piano il viaggio che papa Francesco (nella foto) si appresta a compiere dal 31 gennaio al 5 febbraio nella Repubblica democratica del Congo e in Sud Sudan. Sarà la terza visita di papa Francesco nell’Africa subsahariana, dopo quella del 2015 in Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana e quella del 2019 in Mozambico, Madagascar e Mauritius. Arriva dopo un rinvio. Papa Francesco avrebbe infatti dovuto recarsi in questi due Paesi già nel luglio 2022, ma fu poi costretto a rinviare questo viaggio a causa dei problemi al ginocchio.
Nonostante l’evidente fatica nei movimenti, il pontefice ha voluto tenere comunque fede all’impegno. Anche se in Congo potrà recarsi solo nella capitale Kinshasa, saltando invece Goma, la martoriata città dell’est che era prevista nell’itinerario dello scorso anno. La ragione è una guerra dimenticata, tornata a dilagare: da mesi si rincorrono notizie di eccidi e ondate di profughi. Troppo alti i rischi, non solo per il pontefice ma anche per le migliaia di fedeli che si sarebbero radunate per incontrarlo. Del resto, quella in atto da decenni nella Repubblica democratica del Congo è una vera ecatombe: dalla metà degli anni Novanta i morti hanno già superato i 6 milioni, il numero delle vittime della Shoah. Una strage infinita, alimentata dagli interessi legati allo sfruttamento delle risorse minerarie di cui è molto ricco questo Paese africano. È la guerra per l’accaparramento del coltan, della cassiterite, del litio, materie prime essenziali per la produzione dei telefoni cellulari, batterie per le auto elettriche e tanti altri prodotti dell’hi-tech.
L’est del Congo del resto non conosce pace da quando, dopo il genocidio ruandese del 1994, si è riversato in questa regione più di un milione di profughi. Oggi il Governo congolese accusa quello del Ruanda di sostenere i ribelli dell’M23: il presidente congolese Félix Tshisekedi parla espressamente di tendenze espansionistiche del Ruanda, per accaparrarsi le zone dei maggiori giacimenti minerari. Kigali – a sua volta – accusa Kinshasa di sostenere le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda, un gruppo armato composto principalmente di hutu di origine ruandese, presenti in Congo dal 2000. In questo groviglio di interessi e violenze, da qualche anno si è affacciato persino il fondamentalismo islamico, nonostante queste zone siano a stragrande maggioranza cristiana (i musulmani sono appena l’1,5%). Domenica 15 gennaio, in un villaggio a poche decine di chilometri dal confine con l’Uganda, un commando di forze alleate dell’ISIS ha attaccato una chiesa pentecostale: almeno una ventina le vittime.
Papa Francesco, dunque, sarà chiamato a portare una parola di pace dentro a questi conflitti. A Kinshasa come nel Sud Sudan, l’altro Paese che toccherà durante questo viaggio. La Nazione più giovane dell’Africa, divenuta indipendente dal Nord del Sudan solo nel 2011, doveva essere la grande opportunità per la regione abitata in gran parte da popolazioni cristiane, a differenza della musulmana Khartoum. Invece, il Sud Sudan è subito precipitato in un nuovo conflitto che ha alla radice lo sfruttamento del petrolio locale e delle risorse idriche. Insieme al primate anglicano Justin Welby e al moderatore dell’assemblea generale della Chiesa di Scozia, Iain Greenshields, papa Francesco ha cercato in questi anni di promuovere un processo di riconciliazione che a Juba, insieme, cercheranno di consolidare.
Due missioni impegnative sul piano politico, dunque. Ma per papa Francesco sarà anche un’immersione in un Continente cruciale per il cattolicesimo di domani. Nelle statistiche l’Africa resta la parte di mondo dove continuano a crescere i fedeli e il numero di sacerdoti: rappresenta già quasi il 19% della popolazione cattolica globale e la crescita è costante. La Repubblica democratica del Congo – in particolare – conta oggi oltre 52 milioni di cattolici battezzati, più dell’Italia. Ed è un Paese giovane, in forte crescita demografica: secondo l’ONU nel 2050 sarà una delle dieci Nazioni più popolose al mondo. Quale impronta daranno al cattolicesimo di domani le comunità africane? Difficile dirlo. Da una parte porranno certamente la questione della povertà e degli squilibri planetari. Ma l’Africa è anche un continente dove la fede religiosa è un fattore identitario, fortemente ancorato ai valori della tradizione. Per dare un termine di paragone: nel mondo anglicano sono state spesso le comunità africane a osteggiare più duramente le aperture «progressiste» sui temi etici come la questione dell’omosessualità. E, anche tra i cattolici, il guineano Robert Sarah è oggi uno degli esponenti più in vista del fronte conservatore all’interno del Collegio cardinalizio.
Questa settimana con papa Francesco a Kinshasa e a Juba sarà dunque un’occasione importante per capire che molto più che nelle aule sinodali dell’Europa, è nelle periferie delle metropoli africane che si deciderà la direzione del cattolicesimo nel XXI secolo. Anche per questo, superare le ferite e le contraddizioni che le attraversano è un’urgenza che papa Francesco non si stanca di ricordare.