Quale Isis dopo Mosul

Medio Oriente – Infranto il suo sogno di controllare un vasto territorio fra Siria e Iraq, riuscirà il Califfato a sopravvivere?
/ 24.07.2017
di Marcella Emiliani

Era il 29 giugno scorso quando l’esercito e le forze anti-terroristiche irachene sostenute dalla coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti (Operation Inherent Resolve) hanno riconquistato il cuore di Mosul ovest, cioè il mucchio di macerie su cui si ergevano la Moschea di al-Nuri e il suo minareto «gobbo», distrutti dall’Isis una settimana prima. Esattamente tre anni fa, il 29 giugno 2014 dal pulpito di quella moschea Abu Bakr al-Baghdadi aveva proclamato la nascita del Califfato. Solo 10 giorni dopo, il 9 luglio, ripulite le sacche in cui ancora si annidavano i jihadisti a Mosul, il primo ministro iracheno Haider al-Abadi cantava vittoria «sulla brutalità e il terrorismo» e annunciava «al mondo intero la sconfitta e il crollo del fittizio Stato» islamico. Circondato dai suoi generali, lui stesso in divisa militare, al-Abadi era cosciente che l’Isis non era definitivamente sconfitto nonostante le sue bandiere nere venissero esibite come trofei o calpestate nella polvere da soldati esultanti. Dietro la gioia del momento, infatti, cominciavano a intravedersi le tante minacce alla stabilità dell’Iraq che la vittoria sul Daesh a Mosul rendeva più concrete, come se proprio quella vittoria rappresentasse l’apertura di un nuovo vaso di Pandora. Quali minacce? Proviamo a mettere in fila le più importanti.

Cacciato da Mosul, l’Isis non è sparito dall’Iraq, ma mantiene ancora il controllo di Tel Afar, ad ovest di Mosul nel governatorato (provincia) di Ninive, di Hawija nel governatorato di Kirkuk, di al-Shirqat nel governatorato di Saladin e di una serie di piccole cittadine sulla riva dell’Eufrate conosciute col nome collettivo di al-Qaim nel governatorato di al-Anbar. In Siria è arroccato a Raqqa che probabilmente non tarderà a cadere, ma dall’inizio dell’offensiva contro Mosul in Iraq, il 17 ottobre 2016, ha perso le sue maggiori fonti di auto-finanziamento con cui è diventato il movimento terroristico più ricco del mondo, ha visto infrangersi il suo sogno di controllare un territorio contiguo nel Siraq (a cavallo tra Siria e Iraq), ha visto smentita la sua presunzione di cancellare i confini coloniali tra gli Stati (con le sue parole «stracciare l’Accordo Sikes-Picot»), ha visto crollare il suo mito di invincibilità spietata e il suo «prestigio» internazionale – abilmente pompato dal suo apparato mediatico – che aveva spinto qualcosa come 40’000 foreign fighters provenienti da 120 paesi ad ingrossare le sue fila.

E non giovano ora alla causa dell’Isis né il fatto risaputo che a combattere a Mosul negli ultimi giorni siano stati lasciati proprio i foreign fighters che non potevano confondersi con la popolazione civile perché non parlano l’arabo e dell’arabo non hanno nemmeno i tratti somatici. Come fa rabbrividire e scandalizza il racconto delle torture e delle angherie subite dagli abitanti di Mosul prima come sudditi del Califfato poi come scudi umani per arrestare l’offensiva delle forze irachene. Tutto questo è vero, ma l’Isis ha la capacità di cambiar pelle e strategia pur di sopravvivere. Ha già dimostrato di saperlo fare trasformandosi da al-Qaeda in Iraq in Isis, appunto, dopo la morte di Abu Musab al-Zarqawi nel 2006. E nemmeno la perdita dei suoi leader è importante: c’è sempre un aspirante califfo pronto a sostituire quello ucciso.

Da poco più di un mese a questa parte, ad esempio, assistiamo a un balletto di conferme e smentite sulla presunta morte di Abu Bakr al Baghdadi. L’annuncio sulla sua probabile morte nel corso di un attacco aereo russo a Raqqa del 28 maggio è stato dato il 16 giugno dalla agenzia Tass. Dopo la riconquista di Mosul, la tv irachena Al Sumaria, ha confermato la notizia citando una fonte locale nella provincia di Ninive. Poi è stata la volta della emittente saudita Al Arabiya, che il 15 luglio oltre a confermare la scomparsa di al-Baghdadi ha annunciato il nome del suo successore, Jalaluddin al-Tunisi, al secolo Mohamed Ben Salem Al-Ayouni. Ma il giallo rimane e il dubbio verrà fugato solo quando si esprimerà in merito l’agenzia Amaq o la centrale mediatica dell’Isis, Al Furqan.

Sulla strategia di sopravvivenza del Daesh invece di dubbi ce ne sono pochi e la cronaca ce lo conferma. Moltiplicherà gli attentati con qualsiasi mezzo (auto-bomba, camion sulla folla, lupi solitari armati di coltello …) sia in Medio Oriente che in Europa o comunque in Occidente. L’ha già fatto nella fase in cui lottava per affermarsi tra il 2006 e il 2013. Ma la vera chiave della sua sopravvivenza rimangono i finanziamenti che continua a ricevere da privati e da charities islamiche specie della penisola arabica e dagli equilibri politici nello stesso Iraq. Per dirla in breve se il premier iracheno al-Abadi non garantirà alla minoranza sunnita un equo power-sharing politico ed economico a livello nazionale, gli sceicchi sunniti saranno sempre tentati di ricorrere all’arma e al ricatto del terrorismo con qualsiasi sigla si riproponga.

La ricostruzione e il futuro governo della città saranno cruciali non solo per la possibile rinascita dell’Isis, ma anche per la stabilità dell’intero Iraq. Mosul è sempre stata una città a maggioranza sunnita e proprio i nove mesi di guerra per strapparla al Califfato hanno esteso a nord l’influenza degli sciiti iracheni e dei loro protettori iraniani, i Guardiani della rivoluzione o pasdaran che dir si voglia. Le forze irachene che hanno liberato Mosul e continueranno la lotta al Califfato sono infatti costituite dall’esercito, dalle formazioni del Servizio di contro-terrorismo, dalla Polizia federale (e la sua Emergency Response Division) e dai peshmerga (guerriglieri) curdi, tutti coadiuvati dall’aviazione della coalizione internazionale guidata dagli Usa. Ebbene, sia nel Servizio di contro-terrorismo sia nella Emergency Response Division della Polizia federale sono state inglobate le al-Hashad al-Shaabi, le unità di Mobilitazione popolare create in risposta all’appello della massima autorità sciita in Iraq, l’ayatollah Ali al-Sistani alla vigilia della proclamazione del Califfato nel giugno 2014.

Nelle unità di Mobilitazione popolare, a loro volta, sono confluite 40 organizzazioni – in maggioranza sciite, ma anche cristiane e yazide – impegnate nella lotta all’Isis. I sunniti di Mosul hanno temuto fino all’ultimo la violenza settaria di queste milizie (che si sono abbandonate ad atti di vera brutalità contro i sunniti nel corso della riconquista di Ramadi e Falluja nella provincia di al-Anbar lo scorso anno) e oggi non sono disposti a tollerare l’ingerenza sciita – qualsiasi forma assuma – in quella che considerano la loro città più importante. Temono inoltre la corruzione (ormai endemica nell’Iraq post-Saddam controllata dagli sciiti) in vista della ricostruzione, per la quale l’Onu ha calcolato occorrerà almeno un miliardo di dollari. I danni causati dalla guerra al Daesh infatti sono ingentissimi: è stato distrutto il 90 per cento degli edifici e delle infrastrutture pubbliche, e il 70 per cento delle abitazioni ed esercizi commerciali privati. Per non parlare dei costi umani: dall’inizio della battaglia di Mosul nell’ottobre dell’anno scorso è fuggito dalla città un milione di persone e ad oggi gli sfollati sono ancora 700’000. Una sfida che un governo debole come quello di al-Abadi potrebbe non essere in grado di affrontare.

La lotta all’Isis da tre anni a questa parte ha tenuto unite fazioni e organizzazioni che, venuta meno l’emergenza della guerra al Califfato in Iraq, oggi potrebbero combattersi tra loro mettendo in pericolo la stabilità e l’unità dello stesso Iraq. Veri e propri eroi nella lotta contro il Daesh tanto in Siria quanto in Iraq, sono i curdi a preoccupare maggiormente il governo di Baghdad e non solo quello. Il presidente del governo regionale curdo Massoud Barzani infatti, ha indetto un referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno per il prossimo 25 settembre. Referendum destinato a scatenare le ire non solo di al-Abadi ma anche e soprattutto della Turchia (che non tollera l’indipendenza dei curdi né in Iraq né in Siria, per paura che questo rafforzi la lotta dei curdi in Turchia contro lo strapotere di Erdogan) e dell’Iran che non vuole vedersi spezzare l’arco che oggi – passando per il nord dell’Iraq e della Siria – ormai lo collega al Libano e al Mediterraneo.

La Turchia negli ultimi due anni ha già compiuto incursioni nel Kurdistan iracheno, ma fino ad oggi non abbiamo ancora assistito a scontri diretti tra sciiti e curdi in Iraq che comprometterebbero seriamente l’assetto e la stabilità di tutto il Paese. Interessi dell’Iran e della Turchia a parte, la nota dolens del referendum del 25 settembre è data dall’estensione del territorio che Massoud Barzani intende rivendicare come curdo e far diventare indipendente. Quel territorio, infatti comprende la città di Kirkuk e gran parte dei suoi campi petroliferi, oggi controllati dai peshmerga curdi in virtù della guerra all’Isis, ma che non sono più a maggioranza curda dai tempi di Saddam. Fu lui a stravolgere la geografia umana di Kirkuk cacciando i curdi e spostando nella sua provincia arabi, turkmeni ed altre minoranze. Il tutto mentre la comunità internazionale sta a guardare e gli Usa di Trump non hanno ancora chiarito cosa intendano fare non solo in Iraq ma nell’intero Medio Oriente.