Tra guerra, economia e ambiente

Dal 16 al 20 gennaio a Davos, nei Grigioni, è tornato il Forum economico mondiale (WEF) in versione «classica» dopo due anni sconvolti dalla pandemia. Martedì 17 si è parlato soprattutto di guerra. Presente la first lady ucraina Olena Zelenska, mentre Zelensky è intervenuto in videocollegamento. «La posizione della NATO non è cambiata, l’Ucraina diventerà un Paese membro», ha dichiarato dal canto suo il segretario generale dell’Alleanza atlantica Jens Stoltenberg.

Giovedì il WEF ha ospitato capi di Stato (come il presidente della Corea del sud), leader di Governo presenti (l’irlandese Varadkar e il greco Mitsotakis) e passati (Tony Blair), personalità politiche di alto profilo e numerose figure del mondo scientifico, dell’economia e della società civile, tra cui l’attivista svedese per il clima Greta Thunberg. La Svizzera lascia Davos con una speranza riguardo al dossier europeo. La presidenza svedese dell’Unione Europea ha infatti invitato Berna a una riunione informale dei ministri degli Esteri e della Difesa a maggio. «È una novità assoluta», ha dichiarato il consigliere federale Ignazio Cassis. «Si tratta di un’opportunità d’oro», di «un segnale da non sottovalutare». / Red.


Pechino ammicca all’Unione Europea

Al WEF di Davos la Cina ha portato un messaggio chiaro: sono tornata. Ma la fiducia nei suoi confronti è crollata
/ 23.01.2023
di Giulia Pompili

«La Cina è tornata sul mercato globale ed è pronta a fare la sua parte». Dopo tre anni di isolamento dovuto alle rigide politiche «zero Covid», la scorsa settimana una delegazione cinese è arrivata al Forum economico mondiale di Davos (WEF) portando un messaggio chiaro agli economisti, ai politici e agli investitori globali, ma soprattutto a quelli europei. Il problema è che Liu He, vicepremier e zar dell’economia cinese, è stato costretto a pronunciare il suo atteso discorso quando a Pechino l’Istituto nazionale di statistica aveva da poco diffuso due notizie poco rassicuranti. Da un lato la crescita economica del Paese nel 2022 si è fermata al 3%, un calo significativo rispetto alla previsione del 5,5%. Inoltre, per la prima volta da sessant’anni a questa parte, la popolazione cinese è in calo, il numero dei morti supera quello dei nati, e il Paese più popoloso del mondo sarà costretto a prendere provvedimenti per evitare i danni economici della decrescita demografica.

«Gli investimenti stranieri sono i benvenuti in Cina e la nostra porta si aprirà ulteriormente», ha detto Liu, un fedelissimo del leader Xi Jinping che però, a marzo, dovrebbe andare in pensione. Il vicepremier ha spiegato che l’economia cinese si rafforzerà grazie alle lezioni imparate durante gli anni di crescita, utilizzando i meccanismi di mercato, sostenendo un ambiente globalizzato, e «governando secondo lo stato di diritto, compresa la protezione della proprietà intellettuale, e promuovendo l’innovazione». In linea di principio il discorso di Liu è stato apprezzato dai partecipanti al WEF ma nessuno ha accolto le sue parole come avrebbe fatto qualche anno fa: la fiducia nei confronti della seconda economia del mondo è infatti crollata e la situazione è perfino peggiorata con la politica «zero Covid», repressiva e inutilmente punitiva, e dopo l’inizio della guerra della Russia contro l’Ucraina. La Cina di Xi nel febbraio dello scorso anno ha sancito un’amicizia senza limiti con Vladimir Putin e non ha mai aderito alle sanzioni occidentali, portando avanti invece numerose collaborazioni, sia in campo economico sia militare, con la Russia. Da questo isolamento, epidemiologico e diplomatico, soprattutto con l’Occidente, Pechino adesso è costretta a uscire perché per far correre l’economia, l’innovazione e l’influenza diplomatica ha bisogno dei partner occidentali più ricchi. E ci sono una serie di segnali che dimostrano questa direzione intrapresa da Pechino.

Il dialogo con l’America, dopo mesi di gelo, si è riaperto, ed è stato proprio Liu He a raggiungere mercoledì scorso a Zurigo, per un bilaterale, la segretaria del Tesoro americana, Janet Yellen. La conversazione tra i due sarebbe stata «franca» e produttiva, nonostante le «molte aree di disaccordo». Ma se in America la politica del sospetto nei confronti della Cina è ormai bipartisan, cioè condivisa sia dai democratici sia dai repubblicani, e l’Amministrazione Biden sta lavorando ormai da mesi per rendersi indipendente dal mercato cinese, è sull’UE che punta la Cina. Perché l’Unione si muove ancora in ordine sparso nei rapporti con Pechino, ogni Paese membro con un suo approccio scoordinato dagli altri, e per rafforzare i rapporti bilaterali, Pechino ha lanciato un’offensiva diplomatica dimostrata dalla presenza di Liu He al WEF e poi, a febbraio, da un’inattesa visita in Germania e Belgio dell’ex ministro degli Esteri e membro del Politburo Wang Yi. La Germania del cancelliere Olaf Scholz in particolare, che più dipende economicamente dalla Cina, è stata molto criticata per aver posto le questioni economiche prima di quelle politiche.

«Dobbiamo concentrarci sulla riduzione del rischio piuttosto che staccarci dalla Cina», ha detto a Davos la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in un discorso pressoché tutto incentrato sulla dipendenza economica europea da Pechino. Riduzione del rischio significa mettere in sicurezza l’economia senza per forza abbandonare completamente i rapporti con Pechino. «Quando il commercio non è equo, dobbiamo rispondere in modo più deciso», ha affermato von der Leyen. «La competizione deve basarsi su condizioni di parità. La Cina ha incoraggiato le aziende in Europa e altrove a delocalizzare tutta o parte della loro produzione. Lo fa con la promessa di energia a basso costo, bassi costi di manodopera e un ambiente normativo più facile. Allo stesso tempo, però, la Cina sovvenziona pesantemente la sua industria e limita l’accesso al suo mercato per le aziende dell’UE». E la reciprocità non è tutto, perché nel suo discorso la presidente della Commissione apre anche il capitolo della dipendenza su settori che hanno a che fare con la sicurezza strategica. «Per quanto riguarda le terre rare», ha osservato, «fondamentali per la produzione di tecnologie chiave come la generazione di energia eolica, l’immagazzinamento dell’idrogeno o le batterie, oggi l’Europa dipende per il 98% da un solo Paese, la Cina. Dobbiamo quindi migliorare la raffinazione, la lavorazione e il riciclaggio delle materie prime qui in Europa».

Diversamente dalla dipendenza energetica europea dalla Russia, il problema con la Cina è molto più profondo, interconnesso ed esteso, il che significa che una modifica della politica estera europea nei confronti del gigante asiatico avrà conseguenze enormi sui flussi commerciali, sulle catene del valore e su interi settori industriali. Sarà un processo lento, dicono a Bruxelles, ma non si può tornare indietro: l’èra della pax economica è stata definitivamente archiviata. Liu He e la delegazione cinese, a Davos, avevano una missione: cercare di convincere i partner occidentali che Pechino è tornata, come se non fosse successo nulla. Ma quasi nessuno gli ha creduto.