L’impeto antidemocratico, dagli USA al Brasile

Cosa distingue, nei due contesti, gli assalti alle più alte istituzioni e quali scenari si aprono nel Paese sudamericano
/ 16.01.2023
di Federico Rampini

Comincerò con il sottolineare una differenza fondamentale tra l’8 gennaio 2023 e il 6 febbraio 2021: la prima cosa che distingue i due assalti alle istituzioni democratiche, la versione brasiliana e quella statunitense. L’ex presidente Jair Bolsonaro, a differenza di Donald Trump, quel giorno non si trovava a Brasilia né teneva comizi per incitare i suoi a negare il risultato delle elezioni. Dal suo esilio temporaneo in Florida Bolsonaro ha condannato i facinorosi che lo volevano riportare al potere con la violenza. All’interno del suo partito, inoltre, pochi parlamentari si erano dimostrati disposti a seguire l’esempio trumpiano contestando il responso delle urne. Bolsonaro è arrivato a spiegare la sua accettazione della sconfitta con una frase – «questa è la democrazia» – che Trump non si è mai sognato di pronunciare.

Però, la relativa moderazione di Bolsonaro non è bastata. Imitando l’assalto dei trumpiani al Congresso degli Stati Uniti, un pezzo della destra populista brasiliana ha invaso la sede del Parlamento, e si è lanciata anche all’attacco del palazzo del Governo e della sede della Corte suprema nella capitale federale Brasilia. Il comune denominatore è l’atteggiamento eversivo di chi non accetta il responso delle urne: il 30 ottobre il socialista Lula da Silva vinse senza ombra di dubbio, ancorché di stretta misura. Questi comportamenti criminali puntano a distruggere un fondamento della democrazia, che è il riconoscimento della legittimità dell’avversario. La liberaldemocrazia funziona finché gli sconfitti accettano di farsi da parte, sapendo che grazie alla libera competizione elettorale la prossima volta potranno vincere e tornare a governare. Se invece il partito rivale viene considerato come il male assoluto, allora il fine giustifica i mezzi e perfino la violenza diventa accettabile.

Non è solo un vizio della destra quello di demonizzare l’avversario; in questa congiuntura storica è la destra che sdogana l’assalto più plateale alle istituzioni. Tuttavia la sinistra sudamericana ha perpetrato altrettanti assalti contro la democrazia. Il caso del Venezuela è noto. In Perù di recente un presidente di sinistra, Pedro Castillo, avendo perso le elezioni ha tentato un golpe con lo scioglimento del Parlamento: ora è agli arresti ma i suoi sostenitori continuano ad assaltare le istituzioni con una violenza estrema che ha già fatto molti morti.

Il Brasile per la sua mole (217 milioni di abitanti) è di gran lunga il Paese più importante del Sudamerica. È quindi cruciale che non esporti instabilità nell’area. La sindrome dell’imitazione trumpiana è tanto più pericolosa in quanto il Brasile non ha una liberaldemocrazia antica come la Repubblica statunitense, la quale è sopravvissuta a tante crisi dalla sua fondazione nel 1787. La transizione dalla dittatura militare a Brasilia avvenne ben più di recente, tra il 1985 e il 1988. Quella base popolare bolsonarista, che dal 30 ottobre cova il sogno di una rivincita illegale affidata alla piazza, ha sperato di trascinare dalla sua parte le forze armate. Ma nonostante qualche incertezza e ambiguità iniziale tra le forze dell’ordine, non c’è segnale che i militari vogliano giocare al golpe.

Il Governo Lula ha potuto prendere provvedimenti duri e immediati, compresa la rimozione e l’arresto di alte autorità di Brasilia. Il Governo è anche andato subito a caccia dei finanziatori delle manifestazioni violente. Lula ha avuto il vantaggio dei suoi pieni poteri. A differenza del 6 gennaio 2021 a Washington, quando senatori e deputati dovevano ancora ratificare l’elezione di Biden (lo avrebbero fatto nelle ore successive all’assalto a Capitol Hill), quello di Brasilia non era in sessione al momento dell’assalto e Lula era già presidente da una settimana. Senza un rovesciamento improvviso nell’atteggiamento dei militari, la vicenda non sembra destinata ad avere conseguenze sugli assetti di Governo. Un altro attore importante è la Corte costituzionale, che ha poteri notevoli (perfino eccessivi, secondo osservatori indipendenti) ed è in mano alla sinistra.

Lula alla sua terza presidenza è diverso da quello che governò il Brasile nei primi due mandati, prima dell’arresto e della condanna per corruzione (poi annullata per un vizio di forma). La sua agenda socialista è annacquata per forza: alle elezioni ha vinto, ma non ha conquistato una maggioranza parlamentare. Lula deve cucire una coalizione con elementi centristi e perfino bolsonaristi. Al di là dei proclami che gli attirano simpatie internazionali – come la difesa ambientalista dell’Amazzonia – avrà un programma di Governo abbastanza moderato.

Ora Lula dovrà stare attento a colpire solo i veri protagonisti delle violenze, senza infierire in modo indiscriminato sul bolsonarismo. Il rischio che lui e la Corte suprema vogliano criminalizzare tutti i settori legati all’ex presidente – come l’agrobusiness – è reale. Non bisogna perdere di vista una delle cause della protesta: la legittima convinzione che l’attuale presidente è un leader corrotto, e che la sua disonestà non è stata «ripulita» da un’investitura popolare. L’assalto resta gravissimo e chiama in causa tante responsabilità. Incluse quelle nordamericane. Trump è in declino negli Stati Uniti però esporta il suo cattivo esempio. Il Brasile è un Paese importante anche perché è la B dell’acronimo Brics, quel club di potenze emergenti che include anche Russia, India, Cina, Sudafrica e qualche volta viene descritto come l’antagonista del «nostro» G7 in cui siedono vecchie potenze industriali.

Sotto i primi mandati presidenziali del leader della sinistra, Lula, il boom economico brasiliano fu trainato in modo dominante dalla domanda cinese di materie prime. La crisi finanziaria del 2008-2009 aveva interrotto e indebolito quel ciclo di forsennato aumento dei consumi cinesi di commodities brasiliane (dallo zucchero alla soia, dal petrolio al ferro al legname). Da Bolsonaro a Lula almeno una continuità in politica estera c’è: il rifiuto di applicare le sanzioni economiche decise dall’Occidente contro la Russia. Il Brasile è parte dell’emisfero occidentale in senso geografico, ma non si riconosce necessariamente nell’Occidente geopolitico. Come molti Paesi emergenti continua a covare una cultura del risentimento anticolonialista verso il Nord del pianeta. Si riconosce nel nuovo assembramento di Paesi «non allineati», che non è un vero movimento politico come il Terzo mondo lo fu nella prima guerra fredda (a partire dal vertice di Bandung nel 1955), però è una realtà di fatto. Sono quella maggioranza di Paesi asiatici africani e latinoamericani, che magari condannano l’aggressione russa in Ucraina, ma non per questo vogliono partecipare alle nostre sanzioni. Più ancora della Russia, li trattiene la volontà di avere buoni rapporti con la Cina.

La Repubblica Popolare Cinese è di gran lunga il primo partner commerciale del Brasile, da tempo ha superato gli Stati Uniti. La crescita brasiliana dipende molto da ciò che Pechino vuole comprargli, dall’energia ai minerali alle derrate agricole. L’Unione Europea non è abbastanza presente per poter sfidare con successo le due tendenze che influenzano la politica estera di Brasilia: da una parte un riflesso condizionato anti-USA, dall’altra il condizionamento economico cinese.