Peng Liyuan, la moglie del presidente cinese Xi Jinping, è nota per essere tra le donne asiatiche meglio vestite, capace di stupire per eleganza e sobrietà ogni volta che appare sulle scalette di un aereo all’inizio di un viaggio di stato. È successo anche a Davos, la scorsa settimana, mentre accompagnava il marito Xi al summit svizzero. Per la prima volta, la coppia presidenziale di Pechino è stata ricevuta al World Economic Forum, e nonostante i difficili rapporti della Cina con l’America, a Davos l’élite economica ha steso tappeti rossi per Xi Jinping e Peng Liyuan, stretta in un lungo cappotto grigio e un foulard ardesia, e i capelli raccolti, come le donne cinesi usavano durante la dinastia Tang.
Non è un modo di dire: la comunicazione politica passa anche attraverso gli abiti, e c’è ormai un filo conduttore che unisce moda e potere femminile, dai completi di Margaret Thatcher e la sua eredità stilistica fino al «pantone Merkel», la tavola cromatica dei tailleur della cancelliera tedesca. Perfino il primo ministro inglese Theresa May ha detto tempo fa: «Sono una donna, e mi piacciono i vestiti. Una delle sfide delle donne – che lavorino in politica, nel mondo del business – è quello di essere loro stesse, e comunicare il fatto che si può essere intelligenti e amare la moda allo stesso tempo». L’eleganza algida e austera ma estremamente tradizionale di Peng Liyuan sta a mostrare il volto gentile della potenza cinese, molto più eloquente dei messaggi di globalizzazione e apertura del marito Xi. E i summit di Davos – proprio come le cerimonie d’insediamento – sono anche questo, una sfilata di abiti e intenti, di icone di stile e di pensiero.
Nel 2013 il settimanale «Vanity Fair» ha eletto Peng Liyuan la donna meglio vestita dell’anno, come lo era stata più di settant’anni fa Madame Chiang Kai-shek, moglie del generalissimo. Peng indossa soltanto abiti di designer cinesi, come Ma Ke, fashion designer poco più che quarantenne originaria del sud del Guangdong, «ma non è possibile comparare Occidente e Oriente nella scelta degli abiti del potere», spiega Fabiana Giacomotti, docente di Scienze della moda all’Università La Sapienza, «la differenza riguarda l’individualismo. È un modo di pensare diverso, per cui noi siamo centrati sull’io, mentre loro no, la first lady rappresenta la collettività». E infatti nell’ottobre del 2015 Peng si presentò al banchetto di stato organizzato dai reali londinesi in onore della coppia presidenziale cinese con un pasticcio sul viso. Il trucco era colato, per qualche strano effetto chimico, ma la gaffe fu prontamente censurata su Weibo.
Da anni la stampa cinese tenta di consegnare a Peng lo scettro della first lady influente e capace di comunicare soltanto con il colore di un vestito, e la strada potrebbe essere in discesa adesso che la sua principale rivale, Michelle Obama, non è più alla Casa Bianca. Eletta dal popolo americano principessa di stile, per otto anni Michelle ha fatto dell’immagine (anche grazie alla rivoluzione dei social media, scrive Vanessa Friedman sul «New York Times») la cifra del suo ruolo. È lei ad aver rivoluzionato il sistema della moda intorno al potere: «È per l’intelligenza che esprime, e per una caratteristica dell’intelligenza che è la disinvoltura. Michelle è stata corteggiata da qualunque stilista, pur essendo fisicamente difficile da vestire, perché aveva abbastanza personalità per fregarsene», spiega Giacomotti. E dunque, col passare del tempo, gli americani hanno smesso di criticare la principessa in chief, accettando ogni abito e ogni fantasia. Un meccanismo inverso a quel che succede in Italia, dove l’ex first lady Agnese Renzi può essere oggetto di insulti e volgarità se indossa uno smanicato bianco a collo alto dello stilista Ermanno Scevrino. Mondi diversi, e diversi approcci alla favola dell’ascesa politica.
Secondo il mondo della moda, il messaggio di Michelle Obama, nei suoi otto anni alla Casa Bianca, è stato anche: una first lady può essere riconosciuta nel suo ruolo pur indossando abiti che non sarebbero considerati tradizionalmente eleganti, o adatti alle occasioni formali. Già nel 2008 aveva detto al «Tonight show» di amare J.Crew, la grande catena di distribuzione multimarca americana, e Target, il secondo rivenditore low cost americano dopo Walmart. Le vendite avevano avuto un incremento vertiginoso. Michelle aveva spostato il mercato: «Melania è meno elegante perché non è illuminata. Ma ha fatto bene Armani a decidere di vestirla, i suoi abiti danno eleganza anche a chi non ce l’ha».
Politicamente, la prima mossa vincente di Melania, secondo Giacomotti, è quella di non essersi messa in competizione con l’inarrivabile Michelle: «Ha lasciato la Casa Bianca e il ruolo di first lady a sua figlia Ivanka, che è di un altro mondo: è una ragazza intelligente cresciuta in un ambiente internazionale. Lei è la famosa ragazza che esprime prosperità, educazione e cultura. Essere a proprio agio ovunque è un’altra caratteristica dell’eleganza. Sa sempre cosa indossare, non è la governatrice venuta dall’Alaska. Non sbaglia occasione né vestito». La favola americana del duro lavoro e del riscatto sociale, delle battaglie per i diritti e contro l’obesità, rappresentata da Michelle, sta per trasformarsi nell’elegante ricchezza pro business di Ivanka. Forse è davvero tutta una questione di stile.