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Pardo alla carriera
Ripercorriamo la filmografia di Tsai Ming-liang che sarà premiato il 6 agosto
Nicola Falcinella
Un cinema fisico e concreto e allo stesso tempo astratto, simbolico e rarefatto. Un cinema radicale, estremo nelle sue forme e insieme energico e doloroso. È l’opera di Tsai Ming-liang (nella foto), origini sino-malesi trasferitosi giovanissimo a Taiwan, che riceverà nella serata di domenica 6 agosto il Pardo alla carriera Ascona – Locarno Turismo del 76esimo Locarno Film Festival. Un riconoscimento introdotto solo nel 2010, ad affiancare lo storico Pardo d’onore, che è già andato a Francesco Rosi, Claude Goretta, Bruno Ganz, Claudia Cardinale, Jean-Marie Straub e due celebrità recentemente scomparse come Harry Belafonte e Jane Birkin.
Tsai, classe 1957, è un esponente di punta della seconda ondata del cinema taiwanese che seguì quella guidata da Hou Hsiao-Hsien ed Edward Yang emersa negli anni ’80. La sua carriera è iniziata in teatro e poi in televisione (una decina di lavori scritti o diretti in pochi anni), prima di debuttare con un’opera per il grande schermo nel 1992 Rebels of the Neon God che lo portò alla ribalta internazionale e gli fece conquistare i primi premi, come la vittoria a Cinema giovani di Torino, l’attuale Torino Film Festival. Una storia di giovani in lotta con la famiglia alla ricerca di compagnia, tra giri in moto, pioggia, sale giochi, piccoli furti e rabbia per un futuro che pare scuro. Il botto arriva con il film successivo, Vive l’amour, che ottiene il Leone d’oro della Mostra del cinema di Venezia del 1994 – ex aequo con Prima della pioggia. Un film che ai tempi sorprese e divise grazie a uno stile che sarebbe diventato riconoscibile. Le atmosfere urbane e piovose, le solitudini esistenziali e la violenza improvvisa erano già presenti nell’esordio, più vicino però ai lavori di Yang. Con Vive l’amour il regista imbocca una strada tutta sua. Il primo quarto d’ora della pellicola è senza parole, mentre gli spettatori fanno conoscenza con i tre protagonisti (il triangolo è un elemento ricorrente), un rappresentante di loculi e urne cinerarie, un venditore ambulante di tessuti e una agente immobiliare: questi ultimi finiscono a letto senza ancora essersi presentati e susciteranno la gelosia del terzo, letteralmente, incomodo. Il film ha un vago sapore teatrale e innesta spunti da commedia degli equivoci sulla base di un dramma esistenziale, verso il finale struggente. Difficile stabilire se Vive l’amour rappresenti il capolavoro di una carriera non particolarmente prolifica (11 lungometraggi per il cinema e diversi cortometraggi, compreso l’episodio It’s a Dream del collettivo Chacun son cinéma) e di livello medio alto, di certo però ne rappresenta una sintesi.
Tsai utilizza elementi ricorrenti in maniera quasi ossessiva, partendo dall’attore feticcio Lee Kang-sheng protagonista in tutti i film con il nome Hsiao-Kang. Ci sono i silenzi, i lunghi piani sequenza, il sesso, l’omosessualità, l’acqua che cade incessante dal cielo (tranne ne Il gusto dell’anguria – The Wayward Cloud del 2005, contraddistinto al contrario dalla siccità) ed esce dalle tubature ad allagare gli appartamenti, ma è scarsa da bere.
Tsai lavora tra la ripetizione e l’ellisse, non spiega, preferisce spiazzare, mette lo spettatore davanti alle cose e dargli un tempo per osservarle e trovare la prospettiva giusta. Nei film successivi entrano temi come la nostalgia e la perdita.
Il vuoto esistenziale dei suoi protagonisti trova un parziale sbocco nel cinema (già in Rebels of the Neon God i ragazzi andavano in sala) in Che ora è laggiù? – Et là-bas quelle heure est-il? (2001). Una variazione sul tema della solitudine, della morte e dell’amore lontano, dettata anche dalla presenza misteriosa del caso, tra Taiwan e Parigi (con l’omaggio cinefilo di un cameo di Jean-Pierre Leaud). Il successivo Good bye, Dragon Inn (2003) racconta l’ultimo giorno d’apertura di una vecchia sala tra l’immancabile pioggia incessante e i fantasmi: una delle più belle e strazianti celebrazioni del cinema in sala.
Tsai torna in Francia per Visage (2009), opera su commissione del Louvre, zeppa di riferimenti soprattutto alla Nouvelle vague, visivamente molto bella con la sequenza mirabile degli specchi in mezzo ai boschi. Fu annunciato come il suo ultimo Stray Dogs, premio speciale della giuria a Venezia nel 2013, un apologo apocalittico con piccoli dettagli (la pioggia smette di cadere) che si possono leggere in una chiave meno pessimistica.
Il più recente è Rizi – Days del 2020, che sarà proiettato a Locarno alla presenza dell’autore. Protagonista è un Kang ormai maturo (un paragone con i personaggi di Francois Truffaut o Nanni Moretti non sarebbe fuori luogo), molto malato che si sottopone alle cure e incontra il più giovane Non in un albergo. Un film quasi muto, che contrappone l’immobilità di uno alla frenesia dell’altro. Il ritratto minimalista di un dolore quotidiano, in un crescendo commovente. Oltre ai rumori d’ambiente, l’unica musica è tratta da Luci della ribalta – Limelight di Charlie Chaplin