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Il posto delle mele, laddove scorreva il fiume

La natura maestosa e una storia antica mantengono inalterato il fascino della California, anche al di là delle sue splendide spiagge
/ 30/06/2025
Amanda Ronzoni, testo e foto

Sinonimo di sole, surf e bella vita, a lungo sulla cresta dell’onda per le sue eccellenze culturali ed economiche, dalla Silicon alla Napa Valley, e le università blasonate, oggi il Golden State appare sempre più spesso come triste protagonista delle cronache, vittima di incendi devastanti, condizioni meteo (e proteste di strada) virulente. E nonostante sviluppi una delle economie trainanti non solo a livello americano, ma mondiale (sarebbe la quinta del pianeta), voci di una crisi incipiente si moltiplicano.

Eppure il sogno perdura: la California resta la terra di frontiera, di abbondanza, il paradiso a portata di mano. La mia prima volta nello Stato del Sole fu nel 2009. Un viaggio in moto tra i deserti della Death Valley e del Mojave National Park, luoghi che appartengono più all’immaginario surreale dei fratelli Cohen, che non al patinato mondo dei Beach Boys, o dei film di Hollywood. Poi, recentemente, mi sono imbattuta nei libri di John Muir, considerato il padre dei parchi nazionali a stelle e strisce, oltre che ambientalista ante litteram: «Anche oggi tempo splendido, una di quelle gloriose giornate della Sierra in cui ci si sente come dissolti, assorbiti, trascinati pulsanti di vita […]. Non ci si preoccupa di risparmiare tempo o di affrettarsi più di quanto facciano alberi e stelle. Questa è la vera libertà, un buon surrogato mortale dell’immortalità».

La natura nel suo stato originario

Ho deciso così di tornare in California, spinta dall’entusiasmo quasi naïf dei suoi racconti, e questa volta proprio sulla Sierra Orientale. Con in testa le fotografie di Ansel Adams, che ha tradotto in immagini la meraviglia espressa da Muir, sono andata a cercare quel che rimane della wilderness da loro tanto celebrata. La nostra (europea) idea di «natura», di selvatico, appare alquanto ridimensionata e addomesticata al paragone: l’azione dell’uomo e la sua presenza qui si diluiscono. Non parlo del carattere estetico dei paesaggi, ma della sensazione di essere in una dimensione dove l’individuo, l’umano, ha un peso specifico diverso, più rarefatto e, quindi, minoritario. Eppure i danni fatti sono tanti.

Come per il viaggio precedente a colpirmi non sono tanto la grande città e le sue spiagge chilometriche, i musei ricchissimi di opere e attività, le ville sfacciate o gli effetti speciali degli Studios, ma (una volta sfuggiti al traffico di Los Angeles, si intende) l’incanto delle strade che si lanciano, dritte, infinite, verso l’orizzonte, incredibilmente vuote. Le nuvole che galleggiano sopra la testa, il calore che sale dall’asfalto, qualche animale selvatico che in lontananza si dà alla fuga. Il paesaggio cambia nel giro di pochi chilometri, il deserto cede il passo alle montagne, la pianura ospita il chaparral (vegetazione tipica della California, simile alla macchia mediterranea) colorato dalle fioriture in primavera, mentre gli enormi pini della Sierra crescono avvinghiati alle rocce, senza terra, ma non sembrano preoccuparsene. E poi le vette innevate, le colline gibbose dei film con indiani e cowboy, i laghi agonizzanti, privati dell’acqua per rifornire la grande città a oltre 500 km di distanza, i campi di lava.

Le alture della Sierra

Il paesaggio è prevalentemente desertico, ma mai monotono. Lungo la 14 ci sono le cattedrali di argilla bianca e arenaria del Red Rock Canyon State Park, vecchie di 3 milioni di anni; poi, quando più a nord la strada si congiunge con la 395, si susseguono i neri e i marroni del Salt Lake Cinder Cone, memoria di un’eruzione antica. Intanto cominciano a vedersi, innevate, le alture della Sierra, a sinistra, con i 4421 metri di granitica imponenza del monte Whitney. La strada costeggia poi le sponde maltrattate del lago Owen, un bacino fondamentale per uomini e animali, conteso, sfruttato, sull’orlo della desertificazione tanto che oggi è la fonte principale di polveri sottili degli Stati Uniti. A destra, più basse, ma non meno spettacolari si stagliano prima le Inyo e poi le White Mountains, famose per la loro vegetazione e per Methuselah, un Bristlecone Pine (pino dai coni setolosi, Pinus longaeva), che con i suoi 4856 anni è una delle creature più vecchie del pianeta.

Lungo la strada ci sono solo piccoli centri. Le case appaiono quando c’è un creek (torrente) nei dintorni. La storia di questa regione, come un po’ ovunque nel mondo, del resto, è scritta dall’acqua. La sua abbondanza, mancanza, intermittenza, il suo scorrere sotterraneo, il farsi neve o ghiaccio… l’uomo si è sempre adattato alle sue forme. Nel mio viaggio seguo allora questo filo liquido, che mi porta più a nord fino a Mono Lake.

Il lago Mono

Il lago Mono ha l’esatto aspetto surreale che trasuda dalla celebre foto interno di copertina dell’album Wish You Were Here dei Pink Floyd, scattata da Storm Thorgerson. Un misto di immobilità e silenzio. Eppure di vita, ce n’è, eccome: si tratta di uno dei luoghi più ricchi di biodiversità della regione: dai due milioni di uccelli migratori che nidificano sulle sue sponde (alcuni, come i falchi pescatori, in bilico sui camini di tufo calcareo), alle numerose specie di rettili, alle minuscole scimmie di mare (l’Artemia salina, piccolo crostaceo d’acqua salata), fino a una mosca, l’Ephydra hians, fonte di lauti pasti non solo per l’avifauna, ma anche, in un tempo lontano, per una popolazione locale, i Kucadi-kadi- (che vuol dire proprio «mangiatori di pupe di mosca»). Alcalino, con tre coni vulcanici al suo centro, dal 1941 metà del suo volume è stato sacrificato per rifornire l’acquedotto di Los Angeles, responsabile della desertificazione anche del fiume Owens.

Le comunità sono piccole: Lone Pine, Bishop, Mono City, c’è persino Zurich (!). Non manca mai il visitor center con ragguagli sul territorio e sulla «storia prima della Storia». Tenute ai margini delle epopee dei coloni bianchi, con le loro carovane e le corse all’oro, emergono sempre più le vicende di popoli che in queste terre vivevano da millenni, ben prima dell’arrivo di agricoltori e cercatori di fortune varie.

Lungo i sentieri dei nativi

Confutata la narrativa hollywoodiana dei buoni, i cowboy, contro i cattivi, gli indiani, la storia dei nativi è scritta dappertutto in valle, nella viva roccia. Ci sono magnifici petroglifi ovunque, alcuni visitabili, altri tenuti segreti dalle comunità locali perché ritenuti sacri (e per preservarli dai vandali ignoranti). I resoconti dei primi esploratori parlano raramente dei Paiute, una delle popolazioni del Grande Bacino, ma prima che scoppiasse «la questione indiana», alcuni annotarono di come le valli fossero verdi e irrigate secondo un sistema antico. I numerosi fiumi e torrenti che scendono dalla Sierra venivano captati e le acque di fusione distribuite secondo un sistema comunitario stagionale, a rotazione, per prevenire l’impoverimento degli appezzamenti. Ne trovo traccia risalendo tra le curve che mi portano alle Alabama Hills, uno scenario da film: a ogni svolta mi aspetto di veder saltar fuori qualcuno a cavallo, ma anche qui faccio chilometri prima di riuscire a incontrare anima viva. Trovo giusto qualche fotografo vicino all’arco detto «occhio delle Alabama Hills», da dove si può incorniciare la vetta del monte Whitney, e proseguo sempre in auto fino all’attacco del John Muir Trail, o, in omaggio ai sentieri di caccia dei nativi, Nüümü Poyo, Paiute Trail.

Il panorama cambia radicalmente: alta montagna, alberi maestosi, granito ovunque e a sprazzi neve. Qualche cartello segnala la presenza di orsi, ma non è ancora stagione. La sera trovo il luogo perfetto per passare la notte: Keough’s Hot Springs, una sorgente di acqua che sgorga a 50 gradi carica di ben 27 diversi minerali. La piscina è stata costruita un secolo fa e intorno c’è un campeggio e qualche casa, oltre a un centro di recupero per la fauna selvatica (Wildcare Eastern Sierra, www.eswildcare.org), dove purtroppo non hanno potuto fare nulla per uno sfortunato leone di montagna che, malconcio, era sceso a Bishop in cerca di cibo.

Sulla via del ritorno

Mi fermo poi a Manzanar, letteralmente il «posto delle mele», nome evocativo per un luogo terribile. Un tempo terreno fertile grazie alla gestione delle acque dei locali, fu requisito dai coloni che avviarono coltivazioni di alberi da frutto. Quando il Governo regionale prese ad acquisire i diritti sulla terra lungo l’Owens per la costruzione del famigerato acquedotto, molti vendettero e i meli morirono. Durante la Seconda guerra mondiale venne costruito un campo di concentramento per i giapponesi che vivevano in California, compresi quelli di seconda generazione che avevano nomi americani e si ritenevano cittadini USA. Ironia della sorte, costruirono lì gli ultimi giardini, alla giapponese, per ingannare il tempo e sopravvivere all’ingiustizia. Ora è solo deserto. L’acqua nella valle, sempre meno. La polvere si alza, i venti di Santa Ana prendono a soffiare e a Los Angeles trattengono il fiato.