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Le difficoltà del fumetto francese sullo schermo
Netflix: la nuova miniserie animata di Astérix sottolinea il grande problema di molti adattamenti delle bande dessinée transalpine
Max Borg
Da qualche settimana è disponibile su Netflix la miniserie Astérix e il duello dei capi, riuscita trasposizione in sei episodi dell’omonimo albo a fumetti scritto da René Goscinny e illustrato da Albert Uderzo. Miniserie animata, che riprende – ma con maggiore aderenza allo stile grafico del periodo in cui uscì l’originale cartaceo (1964) – l’estetica digitale tridimensionale dei due più recenti lungometraggi d’animazione dedicati al guerriero gallico, Il regno degli dei e Il segreto della pozione magica. Ed è la seconda volta che dietro le quinte, come principale forza creativa, c’è l’attore, sceneggiatore e regista Alain Chabat (che doppia in francese il protagonista), già autore di Astérix e Obélix – Missione Cleopatra nel 2002 (dove interpretava anche Giulio Cesare).
Film, quest’ultimo, che ha la particolarità di essere l’unico dei cinque adattamenti live-action usciti finora ad aver riscontrato un apprezzamento generale da parte di critica e pubblico, probabilmente perché Chabat, più di tutti, ha saputo cogliere e sfruttare pienamente la dimensione surreale del fumetto, trattando essenzialmente l’avventura egiziana come se fosse un prodotto animato sotto mentite spoglie (strategia applicata anche per la sua altra incursione nel mondo della bande dessinée franco-belga, Marsupilami, uscito nel 2012).
Difatti, l’accostamento tra le due versioni a firma dello stesso autore non fa che mettere ulteriormente in evidenza il principale difetto di quello che in Francia è un vero e proprio filone di adattamenti vari di fumetti di successo: l’incompatibilità visiva tra la materia di base e la trasposizione con attori in carne e ossa. Questo perché quasi tutti i titoli di punta sul mercato, specie se destinati a un pubblico di tutte le età, tendono a seguire il modello della cosiddetta «scuola di Marcinelle», nome derivato dalla località belga dove Jean Dupuis ha dato il via, nel 1938, al settimanale «Spirou», ancora oggi punto di riferimento nell’editoria fumettistica francofona (nonché titolo di una serie d’avventura con protagonista l’omonimo personaggio).
Il termine «scuola» si riferisce ai disegnatori discepoli dell’allora nome di punta della rivista, Joseph Gillain alias Jijé, che teorizzava un tratto dinamico, naïf e rotondo, ideale per storie dalla natura umoristica e/o caricaturale. Tra i suoi allievi ci sono stati alcuni dei più grandi autori del settore, come André Franquin (Gaston Lagaffe, Marsupilami), Jean Roba (Boule et Bill), Maurice de Bevère detto Morris (Lucky Luke) e Pierre Culliford alias Peyo (I puffi). A questo si aggiunge l’altra linea di pensiero, quella portata avanti da Georges Rémi, ossia Hergé, con le avventure di Tintin, la ligne claire, che prevede un tratto semplice e regolare, senza giochi d’ombre e sfumature (questo anche per tenere conto dei limiti tecnici della colorazione all’epoca).
In pratica, anche quando abbiamo a che fare con personaggi dalle sembianze umane, essi hanno comunque dei connotati non del tutto realistici, e si muovono in mondi con una propria logica interna, non sempre compatibile con la nostra. Capitano dei casi ibridi, come ad esempio la serie Le giacche azzurre (Les tuniques bleues), ambientata durante la Guerra Civile Americana. Lì il disegnatore Willy Lambil restituisce con grande verosimiglianza ambienti e personaggi (tra cui figure storiche come il generale Ulysses Grant), fatta eccezione per i due protagonisti, il sergente Chesterfield e il caporale Blutch, le cui fattezze si rifanno allo stile di Marcinelle. Di conseguenza, quando produttori e registi cercano di portare queste storie sullo schermo in live-action, senza tenere conto dello scarto estetico e dello spirito stralunato, il risultato tendenzialmente è dal mediocre in giù e non piace nemmeno ai fan duri e puri, al punto che gli incassi disastrosi di film come quelli di Spirou e Gaston Lagaffe (usciti a un mese di distanza nel 2018) hanno portato all’effettiva cancellazione di alcuni progetti e probabilmente influito sull’esito commerciale negativo del recentissimo Natacha, (presque) hôtesse de l’air. Che in realtà è uno degli esempi più felici di questo filone, poiché consapevole del suo essere un po’ fuori dal mondo (e, in quanto commedia ambientata qualche decennio fa, fuori tempo massimo). Ma è una rara eccezione, esempio lampante del paradosso di questi tentativi maldestri di portare al cinema o sulle piattaforme i successi cartacei: la fonte letteraria ha un’impostazione apertamente umoristica, ma chi si occupa dell’adattamento tende a prendere il tutto un po’ troppo sul serio.
Come direbbe il buon Obélix, sono pazzi questi cineasti…