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Il decollo mancato del volo sopra l’oceano
Pubblicazioni: dal Campiello alla Buchmesse, passando per lo specchio del bagno: perché il secondo romanzo di Matteo Porru convince poco
Roberto Falconi
Da quel che mi sembra di capire, il caso di Matteo Porru è sintomatico della «festivalizzazione della letteratura» (Gianluigi Simonetti, critico letterario) in atto da qualche anno, per cui contano sempre di più la contiguità (tra lettore e libro e tra libro e persona fisica dell’autore) e la contestualità (la capacità di un’opera e di un autore di integrarsi in sistemi esterni al campo letterario). Attingo dal web: Matteo Porru di Roma ha ventiquattro anni, alle spalle una grave malattia che lo ha colpito nella primissima infanzia.
Laureato a Ca’ Foscari di Venezia, è giornalista, pubblicista, editorialista. È spesso ospite di trasmissioni televisive (lo ha lanciato Maurizio Costanzo), su di lui è stato girato un documentario. Qualcuno lo ha inserito tra gli under 25 più promettenti al mondo. È stato il più giovane ospite della Buchmesse di Francoforte. Si esprime in modo cortese, fluente, senza esitazioni. Ha scritto libri (tanti), racconti (uno dei quali gli è valso il Premio Campiello sezione Giovani), saggi, drammaturgie. L’auspicio è ovviamente che possa fare grandi cose, come questo inizio sembra suggerire, e che siano soprattutto migliori del suo secondo romanzo garzantiano, Il volo sopra l’oceano.
Michele (acciaccato dagli anni e dai colpi della vita) e Jonathan (giovane, ma già disilluso) si ritrovano seduti uno accanto all’altro su un aereo, destinazione Gran Canaria. Ci vanno per elaborare un lutto irrisolto (la perdita di un amore giovanile per Michele, la separazione dei genitori per Jonathan). Il finale, dopo quattro ore di volo, rimetterà tutto a posto.
Il confronto tra i due non presenta particolari segni di originalità. Il maestro si rivolge al novizio (dal quale però c’è pur sempre qualcosa da imparare) regalandogli qualche perla («La rabbia che provi è energia: rendila amore») e innescandone il processo di trasformazione, che avviene in bagno, manco a dirlo davanti allo specchio («Non si è mai sentito così tanto sporco»), in dialogo con il tatuaggio del gabbiano cui il giovanotto deve il proprio nome (la cosa va ad ogni modo spiegata: «Per il gabbiano Jonathan Livingston. Era il libro preferito dei miei, quando ancora stavano insieme»).
I capitoli – meccanicamente giustapposti, e che faticano ad andare oltre le tre-quattro paginette dal carattere e dall’interlinea generosi – appaiono spesso costituiti da scene madri, prive quindi della forza centrifuga necessaria per spingere il romanzo verso quei vuoti interstiziali nei quali dovrebbe invece insinuarsi.
Anche i rari spunti meritevoli di qualche supplemento di indagine si appiattiscono sul giochino scoperto: l’attacco del libro («Prima di chiudersi la porta alle spalle, Michele Prato aspetta di sentire, per l’ultima volta da dentro casa, il rumore di un tuono»), di per sé promettente, resta sostanzialmente irrelato e si spegne nel parallelismo con la frase di chiusa («Poi gli sorride e arrivano i tuoni»). Ecco, l’impressione è che questo sia un romanzo delle occasioni mancate, come mi pare mostri il fertile tema della ventriloquia – su cui Michele costruirà la propria carriera artistica sin da bambino, orfano prima del padre e poi della madre – la cui trattazione si riduce a un abbozzo di riflessione sulla reticenza del vecchio («Sono evaso per tutta la vita. Il ventriloquo non parla, lo fanno i suoi pupazzi»). Né manca qualche velleitarismo, verificabile ad esempio al ventiduesimo capitolo nella disproporzione tra il titolo (Lo stato del mondo) e le righe che seguono, in cui il dialogo intergenerazionale tra i due personaggi non va oltre qualche frasetta a effetto («Il mondo è un posto in cui si è abbassato il cielo») e si chiude con i soliti toni pacificanti (Jonathan: «Quindi non è vero che si stava meglio prima?». Michele: «Ma nemmeno per sogno». Jonathan: «E io ti garantisco che non si sta meglio adesso». Battute finali: «Allora non è cambiato niente». «Già, niente. Nemmeno il cielo»).
La destabilizzazione stanca, si sa. Meglio allora una tramatura costituita da stereotipi ormai indegni persino di essere parodiati (l’infermiera durante il massaggio cardiaco a Michele: «Non lo perdiamo, non lo perdiamo»), slogan spacciati per verità esistenziali («Non conta il quando, mentre esisti. Conta il come, solo il come»; «Il dolore non la merita, una voce; merita solo l’addio»), frasi che non significano nulla («Se l’eterno ha un colore, è un tono di blu»; «È un ottimo momento per rinascere, e altrettanto per morire»), metafore fuori fuoco («Lo ricorda sempre, mentre cammina trascinando le scarpe e i retropensieri»; «L’aria è ferma e ride»).
Del resto, se anche i paratesti spesso possono dire la verità, qui le otto pagine di ringraziamenti (su 138 complessive) mostrano che lo sguardo è orientato verso una realtà extratestuale, come se il romanzo non riuscisse a reggersi sulle proprie forze e si subordinasse al contesto in cui è stato creato e in cui verrà recepito.