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Ghiacciai in mostra a Trento

Tra le montagne del Trentino prende forma un dialogo fra arte e scienza per raccontare un tema cruciale per la nostra epoca: il destino dei ghiacciai sotto la minaccia del cambiamento climatico. Fino al 21 settembre 2025, il Mart di Rovereto e il MUSE di Trento accolgono Ghiacciai.

L’esposizione – nata dall’opera di Sebastião Salgado, a cura di Lélia Wanick Salgado e realizzata in collaborazione con Contrasto e Studio Salgado – fa parte dell’Anno internazionale dei ghiacciai, promosso dall’ONU.

Al Mart si potranno scoprire oltre 50 immagini di ghiacciai da tutto il mondo, in grande e grandissimo formato, mentre al MUSE è allestita un’installazione unica dedicata ai paesaggi del Parco Kluane in Canada. Un’opportunità per esplorare la bellezza e la fragilità di questi ambienti vitali per la Terra.

Per dettagli e prenotazioni:
www.mart.tn.it/mostre/sebastiao-salgado-ghiacciai-157526


Il viaggio di Sebastião Salgado tra le ferite del pianeta

L’editore e curatore Roberto Koch, attraverso inedite curiosità, ricorda il fotografo brasiliano da poco scomparso come uomo    profondamente laico, razionale, con un’etica dello sguardo quasi scientifica, seppur intensamente empatica
/ 23/06/2025
Manuela Mazzi

Uomini in equilibrio su scale di legno, chi a torso nudo chi in magliette sgualcite, riemergono sporchi di fango e sudore da un paesaggio scavato a mano nella terra, gradino dopo gradino; in spalla sacchi pesanti spinti verso l’alto lungo pareti babeliche: nella leggendaria immagine della miniera d’oro di Serra Pelada, Brasile, Sebastião Salgado ritrae l’umanità come un’onda tenace, affamata di futuro; una tensione verso l’alto, così satura di fatica e desiderio, che richiama l’ambizione umana di superare i limiti, di «toccare il cielo», rievocando il mito babilonese già ritratto da Bruegel.

Rivederla oggi, alla notizia della sua scomparsa, è come scorgere un’ultima volta la scena madre di un film irripetibile, qualcosa tra il Pasolini più materico e l’epica senza eroi.

Pochi fotografi sono riusciti a raccontare la complessità del mondo con uno sguardo tanto coinvolto quanto controllato. Salgado lo ha fatto riuscendo spesso a evitare la pietà, rifuggendo il cinismo, cercando invece quella soglia in cui l’estetica e la giustizia si sfiorano. Ha smesso di fotografare. Non di mostrarci come si fa: guardare, sempre, senza sottrarre dignità.

Per comprendere davvero come operasse, quali principi guidassero la sua ricerca e che segno abbia inciso nella cultura visiva contemporanea l’opera di Salgado, abbiamo parlato con Roberto Koch: fondatore della casa editrice Contrasto, storico curatore di molte sue esposizioni in Italia, e compagno di viaggio nel racconto visivo di Salgado. Un osservatore privilegiato, in grado di narrare tanto il professionista quanto l’uomo dietro l’obiettivo.

Roberto Koch, nel corso degli anni lei è stato vicino al processo creativo di Salgado. C’è qualcosa che lo rendeva davvero unico?
Salgado ha inventato, di fatto, un modo di fare fotografia applicabile solo a lui, dando forma a una sorta di struttura narrativa enciclopedica. Studiava per anni un tema, prima ancora di iniziare a fotografare: raccoglieva documenti, testimonianze e dati per determinare le necessità documentative di un determinato soggetto che veniva indagato e poi fotografato ovunque, spostandosi in centinaia di Paesi in tutto il mondo, in tutti i Continenti.

Applicò questo suo metodo sia all’archeologia del lavoro industriale – che fu il primo tema da lui affrontato, cioè La mano dell’uomo – sia al tema delle migrazioni. I suoi sono sempre stati lunghi progetti di 6, 7, 8 anni.

Finita la raccolta delle immagini, ne faceva una selezione molto accurata, lunga, con ripensamenti, e nuove selezioni meticolose, fino ad arrivare a una scelta definitiva, che poi faceva stampare; e sono proprio quelle opere che in qualche modo costituiscono il racconto divulgativo dei suoi lavori.

Una produzione autoriale completa e… complessa.
Enciclopedica, sì, non c’è dubbio, ogni progetto fino all’allestimento delle mostre, è sempre stato frutto di sue produzioni, dalla ricerca delle storie, alla raccolta delle informazioni legate a ogni singola fotografia, allo studio di movimenti economici che sovrintendono un determinato atto racchiuso nei suoi scatti, alla selezione, ai formati, a tutto, alla musica, ai testi e così via.

Un unico autore ma un autore polivalente e molto, molto efficace sul piano della divulgazione per cui, al tempo stesso, molto semplice da capire.

Una semplicità voluta proprio per permettere di veicolare ciò che sta dietro il lavoro industriale, dietro le migrazioni, dietro i meccanismi economici che regolano e sovrintendono l’insieme delle fotografie che lui mostra, come quelle che stanno alla base delle immagini di uno dei suoi primi lavori molto importanti, quello della miniera a cielo aperto di Serra Pelada, in Brasile, che è spettacolare.

…e un po’ inquietante.
Ma anche straordinariamente bello, straordinariamente vivo. In questo lavoro, per esempio, c’è un equivoco che lui ha voluto subito chiarire: le persone che ha ritratto non sono schiavi di nessuno, sono cercatori che, quel lavoro, lo vogliono fare perché è una fatica finalizzata alla libertà che vogliono acquisire attraverso la speranza di trovare dell’oro da potersi tenere.

Le condizioni sono estenuanti, è vero, sono drammatiche, però è un affresco di una modalità contemporanea, è vera e rappresenta come le persone devono darsi da fare per poter vivere, o almeno, sopravvivere.

Molti leggono nelle sue opere un senso del sacro. Era un intento consapevole da parte sua?
No. Salgado era laico, profondamente darwiniano. Diceva: «Se esiste un Dio, per me è Darwin». Sebbene, in effetti, titoli come Genesis o alcune immagini, specie quelle che rievocano archetipi e figure iconiche, possano richiamare suggestioni religiose, ma in modo del tutto involontario. Non è che si facesse guidare dalla Bibbia, semplicemente quelle immagini portano con loro un’aura che può evocare quel tipo di sensazioni.

Però è vero invece che il modo in cui lavorava poteva evocare una dimensione quasi rituale, anche senza trascendenza. Ricordo che durante il progetto La mano dell’uomo, tra di noi lo definivamo «il raìs» – come il capo della tonnara, colui che dà l’avvio e guida la mattanza dei tonni. Era un modo affettuoso ma preciso per dire che Salgado era quello che dava la direzione, il ritmo, l’impronta iniziale al lavoro. In lui non c’era religiosità, ma un senso del gesto necessario, dell’ordine profondo delle cose, quasi come se ogni scatto fosse parte di una cerimonia. Un’etica profonda, più che una fede.

A proposito di etica, c’è mai stato un momento in cui ha deciso di non fotografare?
Sì. Salgado è sempre stato un uomo rispettoso degli altri esseri viventi. Ricordo un episodio in Amazzonia, tra i bambini di una tribù che all’interno di una tenda facevano un gran chiasso giocando: tramite l’interprete cercò di chiedere alla madre di uno di questi bambini se potesse cortesemente invitare il figlio e i suoi amici a non fare tutto quel rumore, ma l’interprete, che lo aiutava con gli indigeni, gli ripose che non poteva farlo perché in quella tribù il concetto di divieto non esisteva: «Se un bambino fa una cosa vuol dire che la deve fare. E quindi la parola “no” e la parola “non si può” non sono cose che posso usare». Salgado, non insistette e cercò un’altra soluzione.

Lui faceva le cose secondo quello che era bello, che era interessante, che era intelligente e al tempo stesso che era possibile. Alle Galapagos, ad esempio, si mise a quattro zampe per essere allo stesso livello degli occhi dell’animale che voleva fotografare, certamente per catturare qualcosa di più intimo, ma soprattutto per non mettere paura all’iguana.

Cercava il modo più etico per ottenere l’immagine, mai l’aggressione. La sua attitudine era quella di creare condizioni che fossero adeguate.

Amava tanto gli animali…
Raccontava che, sempre alle Galapagos, aveva fatto, per così dire, amicizia con un falco. Questo falco, incuriosito da un essere umano – che probabilmente non aveva mai visto in vita sua per cui nemmeno lo temeva – prese a seguire Salgado durante l’intera risalita di un monte, senza mai distrarsi dal suo cammino. Quando Salgado si fermava a osservarlo, il falco si metteva a fare dei lunghi volteggi.

Nel libro Amazonia spiega di aver inventato una storia «secondo la quale avevo domato un giaguaro a mani nude» raccontandola a un indigeno, che si arrabbiò molto. Salgado era un narratore o un mitomane?

Era un cantastorie. Aveva una capacità di osservazione finissima e si adattava all’atmosfera consentita dal dialogo. Non va poi dimenticata la difficoltà nella comunicazione, date le tante lingue che si parlano in Amazzonia. A volte, forse, testava i limiti culturali di chi aveva di fronte. Ma mai in modo irrispettoso. Era curioso, un buon narratore, non megalomane.

Esistono «eredi» di Salgado? Ha avuto allievi?
No. Ha trascorso tutto il tempo a fotografare. Non ha lasciato allievi diretti. La sua testimonianza è nelle immagini. Un unicum. Difficile immaginare qualcuno che possa replicarne davvero il percorso.

Sono in programma altri progetti postumi?
Sì. Ci sono molte mostre che ancora non sono state fatte, una di queste, ad esempio, si intitola Ghiacciai ed è attualmente in corso a Trento, visibile fino al 21 settembre. È inedita, e voluta da lui prima della sua scomparsa. Salgado ha lasciato moltissimo materiale, e altri nuovi progetti sono in corso.

Come parlare di ghiacciai senza pensare alle nostre Alpi?
Delle Alpi ha parlato tantissimo perché le adorava. Pensi che veniva a stampare qui, in una tipografia di Trento, e due o tre volte preferì affrontare il viaggio da Parigi in macchina proprio per poter attraversare le Alpi e godere di tutto lo spettacolo che offre il valicarle.

Avrà sicuramente valicato anche il Gottardo una volta nella vita sua…
Sì, sicuramente.

È a conoscenza di suoi legami particolari con la Svizzera?
Negli ultimi anni ha avuto una lunghissima collaborazione con la Zurich Insurance, il gruppo delle assicurazioni. Questa collaborazione ha dato il via a un grandissimo progetto di sostegno chiamato Zurich Forest Project, che ha come scopo la riforestazione della Mata Atlantica in Brasile, secondo l’ideazione di Sebastião e Lélia Salgado attraverso il loro Instituto Terra.

Questo ha consentito di triplicare il numero previsto delle piante da mettere a dimora (ndr: il progetto iniziale sperava nella piantumazione di un milione di alberi nativi su circa 700 ettari): sono già arrivati a più di 3 milioni e il progetto prosegue, anche grazie alla mostra Amazonia, alla quale è legato.

Rivedendo oggi lavori come Other Americas o La mano dell’uomo, nota qualcosa di profetico?
Sì. Circoscrivendo tutte le condizioni del mondo riguardo, per esempio, il tema della Terra, ha certamente anticipato la crisi climatica e altri problemi ambientali, e lo ha fatto sia come fotografo sia come persona, agendo in modo concreto: ha creato le condizioni per cui potesse venir riforestata la sua terra e fatti tornare a scorrere i fiumi nella sua fazenda; alla foresta che sta tornando rigogliosa, ora si affianca la presenza di fauna selvatica, che è una testimonianza della vitalità dell’ambiente naturale.

È stato un reporter con una forza narrativa rara, e grazie a questo ha vissuto una vita molto felice. Molto felice e piena.