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Nel cuore spezzato dei Balcani

Il Kosovo raccontato attraverso frontiere inaccessibili, architetture dimenticate e la memoria ostinata di chi vi abita
/ 09/06/2025
Emanuela Crosetti, testo e foto

Aveva ragione il monaco kosovaro che incontrai al Monastero del Fiume Nero, nel profondo sud della Serbia: visitare il Kosovo, mi disse, è come passeggiare in un quadro di Ivan Generalić (ndr: un pittore naïf croato). Soprattutto se si percorre la strada che, dalla serba Novi Pazar, con la sua folla di minareti al vento e i confortanti divani ottomani, transita proprio ai piedi di questo trecentesco monastero, guardiano di frontiera incassato nella montagna, al fondo di una gola muta.

La mancanza che il monaco Đorđe da sempre prova per il proprio suolo natio è forte. Ma un vecchio giuramento lo tiene legato al monastero, senza più ritorno. Vive di ricordi in questa pietra scavata nel buio, dove giocano piani e falsi piani, scalini incerti, cunicoli ciechi e porte che si aprono sul nulla. E dove grava ovunque un silenzio di ombre, impregnato di reliquie, libri di cuoio e incensi perpetui. Terra complessa, il Kosovo, mi rivela Đorđe, congedandosi da me con nostalgia. Forse incomprensibile. Ma vale la pena tentare, dirigendosi ai suoi intricati confini e calandosi nelle valli più anguste, per poi disperdersi tra quei monti che i suoi abitanti ancora credono forieri di leggende, segreti e misteri irrisolti.

La via che entra in Kosovo da nord serpeggia tra profili aspri e gole taglienti, solcando spazi avari di vita e densi di arcani presentimenti. Ed è proprio in questa trappola di quiete apparente, dove ogni orizzonte sembra essere perduto, che sorge in lontananza, come un miraggio, una delle città più redivive di tutti i tempi, in barba alla guerra che non perdona: Kosovska Mitrovica, dove serbi e albanesi sono tanto divisi dal fiume Ibar quanto simbolicamente uniti nel colossale Santuario della rivoluzione, trilite in stile brutalista del 1973 dedicato ai minatori di entrambe le etnie che combatterono a fianco dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia contro le forze nazifasciste. Imperioso e solitario, svetta dall’alto con tutto il suo rude carico di cemento armato, fiero del celebre architetto che lo ideò: Bogdan Bogdanović, un uomo di grande ingegno ma di poche parole. Pare che, per la realizzazione dell’opera, si servì esclusivamente di scalpellini locali, in quanto inesperti e quindi più inclini a seguire le sue idee senza tante discussioni.

Spirito orgoglioso e resiliente, quello del popolo kosovaro, che rinasce ogni volta come una fenice, anche quando a spazzare la propria eredità sono le bombe. Il centro storico di Peć è una di queste fenici, ricostruito fedelmente in ogni minimo dettaglio. A camminare lungo la via del bazar, si ha come la sensazione che tutto sia rimasto immutato dall’epoca degli Ottomani: le rumorose botteghe degli artigiani e gli intarsi di legno sui muri bianchi delle case, le mille finestre occhieggianti sotto i cornicioni e il duro selciato che ancora risuona di echi, richiami ed eterne contrattazioni. Poi cala la sera e ovunque si accende una festosa filigrana di luci, sospesa come un tappeto volante sulle teste dei viandanti. Eppure, oltre il brusio del mercato e delle merci che passano di mano in mano, oltre i lunghi caffè turchi e le conversazioni che non hanno mai fine, qualcosa sembra incombere all’orizzonte, verso ovest.

Montagne maledette, mi dice un negoziante scrollando il capo. Laggiù, in quel fitto dedalo di pendii inospitali, si dice che un tempo vivessero montanari dal turbante bianco, il cui copricapo serviva da lenzuolo funebre in caso di morte per conflitto a fuoco. Quelle foreste brulicavano di così tanti banditi e contrabbandieri, da non potercisi avventurare senza un fucile a tracolla. Poi arrivò il 1999 e le Gole di Rugova divennero rifugio dei guerriglieri dell’Esercito di Liberazione del Kosovo. Sarà per questo che, all’Eagle Ranch, locanda sperduta, c’è una canna di mitragliatrice inchiodata a un albero della terrazza panoramica, residuato bellico rinvenuto nelle vicinanze che, a detta del proprietario del locale, spuntava dal terreno come un palo mal conficcato. L’Eagle Ranch: introvabile. Per raggiungerlo, bisogna dirigersi dalla parte opposta a quella indicata sul cartello. Ho chiesto spiegazioni: mi hanno risposto che non vogliono scocciatori.

Sono montagne insidiose, queste del confine ovest. Entrano nell’anima come un mantra. O forse è solo l’eco della preghiera che risuona dall’alto della cinquecentesca moschea di Hadun, a Gjakova, un luogo diventato leggenda. Da sempre, infatti, per raggiungere la balconata a loro riservata, le donne devono salire in processione su per il sottile minareto in pietra, caracollando per una tortuosa scala a spirale che, gradino dopo gradino, conduce proprio dirimpetto al mih‐rāb, pulpito troneggiante fra sottili arabeschi, smaglianti laccature e pareti ricamati di parole. Ci sarebbe da perdere il senso del tempo, da quassù, se non si rischiasse di rimanere chiusi dentro per la troppa fretta del custode che, terminata la preghiera, serra la porta dabbasso senza tanti convenevoli. Fino al prossimo richiamo del muezzin.

Lo spirito di Gjakova è albanese. Basta entrare in una delle tante locande disseminate lungo la via principale, per intuirlo, e soffermarsi sulla moltitudine di suppellettili che dappertutto ammicca: cezve di rame, dallah in ottone e tazzine di porcellana senza manico, per il caffè; statue del valoroso Gjergj Skënderbeu; bottiglie di vino Amselfelder, vanto kosovaro; introvabili çiftelia, lunghi mandolini a due sole corde; e fotografie in bianco e nero di una Gjakova che non esiste più. In fondo alla via, invece, ancora esistono e resistono le ultime kulla del Paese, case patriarcali in pietra a tre livelli, simili a fortezze, dove all’ultimo piano si riunivano i maschi della famiglia per discutere di affari, ricevere ospiti o puntare i fucili su sospettosi malcapitati attraverso le invisibili fenditure dei muri.

Terra ostica, il Kosovo. Con una sola eccezione: il timido villaggio di Brod, incuneato nelle brumose alture del sud e raggiungibile incespicando per un’interminabile strada tutta buche, crepacci e impietosi tornanti. In questa enclave di vita antica, sopravvivono i gorani, gruppo etnico religioso che professa l’Islam e tuttavia scrive in cirillico e parla il torlacco, dialetto slavo meridionale al quale essi ostinatamente si aggrappano affinché non vada perduto per sempre.

A Pristina, invece, c’è un cuore di metallo che da tempo pulsa ormai una «lingua morta». È la Biblioteca nazionale del Kosovo, orgoglio in stile sovietico del 1944 la cui aggrovigliata struttura architettonica rimanda alle meticolose celle di un alveare. Sono circa 800 mila i volumi qui custoditi. Peccato che non li legga più nessuno. O, meglio, che nessuno li possa più leggere. I rari studenti che la frequentano, infatti, i libri se li portano da casa, perché quelli allineati sugli scaffali sono tutti scritti in lingua serba. E nella città di Pristina, di serbi ne sono rimasti appena una decina. Ormai si parla quasi solo albanese.